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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2014 alle ore 14:15.

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Caro direttore,
le scrivo perché ho un dubbio. Non sono sicura se i cittadini (e il nostro Governo) hanno capito fino in fondo per quale motivo Confindustria e larga parte dell'industria europea vogliono che la Ue adotti regole precise sull'indicazione di origine dei prodotti.
Non voglio entrare nei tecnicismi di questa proposta legislativa che, ricordo, obbligherebbe a scrivere in etichetta il Paese dove è avvenuta la trasformazione sostanziale dei beni che compriamo ogni giorno.

Voglio invece spiegare con chiarezza che cosa sta succedendo e quali sono i rischi che corriamo. Perché ne corriamo. E non solo le industrie. Tutti noi cittadini.
Dopo un lungo e incerto percorso legislativo al Parlamento europeo concluso, il 15 aprile scorso, con un'approvazione molto sudata del made in. Evito di ricordare le critiche, palesemente inconsistenti, che sono state mosse: è chiaro a tutti che l'opposizione è politica, forse talvolta anche ideologica.

Il Consiglio dei ministri europeo è ora in condizione di avviare e, verosimilmente di concludere, la seconda fase della procedura legislativa di co-decisione, forte proprio del voto del Parlamento, che ha sostenuto per l'ennesima volta e a larghissima maggioranza questa proposta. Un risultato, oggi che il nostro Paese guida anche la presidenza Ue, davvero a portata di mano.

Purtroppo, potrebbe non essere così scontato.
Il vertice degli Stati membri europei, il gotha che deve decidere cioè, non trova l'accordo e sta bloccando il negoziato.
Sapete perché? "Semplicemente" perché il diktat di alcuni governi, che sembra non si possano mai contraddire, è di rifiutare ogni possibile compromesso. Senza discutere, senza riflettere, senza nemmeno voler considerare le mille fondate ragioni che stanno dietro questa proposta.

Ne basterebbero due soltanto a convincere anche il più testardo dei detrattori, a patto ovviamente di mettere da parte l'ideologia.
La prima è macroscopica e grida vendetta: lo fanno tutti gli altri Paesi. L'obbligo di indicare l'origine dei prodotti è in vigore infatti nella stragrande maggioranza dei partner commerciali della Ue, inclusi gli Stati Uniti con cui stiamo negoziando un accordo di importanza storica. Questo significa che, oltre a essere compatibile con le regole del Wto, l'organizzazione mondiale del commercio, la norma c'è perché di fatto serve e funziona. Senza contare che adottandola si porrebbe fine a una ingiustificata e costosa disparità di trattamento a livello globale nei confronti delle merci che importiamo
in Europa.

La seconda sta tutta nella sua base giuridica, ossia la tutela dei consumatori, che afferma senza possibilità di equivoco l'esigenza di consentire anche al consumatore europeo di conoscere la provenienza di ciò che acquista.
Non sfugga a nessuno, infatti, che oggi, unica eccezione al mondo tra i mercati avanzati e non, qualsiasi prodotto destinato al consumo, inclusi ovviamente quelli provenienti da Paesi extra Ue, può essere immesso e circolare liberamente in Europa senza alcuna indicazione di origine. Perché gli altri sì e noi no?

Piaccia o no agli ideologi nord-europei, che in materia sembrano avere un approccio piuttosto à la carte, questa sarebbe maggiore trasparenza del mercato. Sarebbe un modo serio per combattere la contraffazione, l'illegalità e dare anche ai consumatori europei il modo di difendersi.
Per questo Confindustria e larga parte dell'industria europea vogliono che la Ue adotti regole precise sull'indicazione di origine obbligatoria dei prodotti. Potevamo fare di più? Come sistema delle imprese, posso rispondere con onestà di no. Il movimento di opinione guidato da Confindustria è stato l'asse promotore per l'adozione della proposta da parte della Commissione europea.

L'abbiamo difesa per anni, in tutte le sedi, rimandando al mittente ogni tentativo di sgambetto tecnico-giuridico. I parlamentari europei della scorsa legislatura - cui va ancora il riconoscimento di Confindustria - hanno sostenuto con coraggio la proposta, approvandola in seduta plenaria. Oggi chiediamo ai parlamentari che sono entrati in Parlamento o che proseguono la loro esperienza di rappresentanti dell'Italia a Strasburgo di continuare a sostenere il made in e a vigilare.
Il nostro obiettivo era farla arrivare a ogni costo al luglio di quest'anno quando sarebbe iniziato il semestre italiano di presidenza, mantenendo salda la coalizione di una decina di Paesi membri favorevoli, spesso ispirati dalle rispettive Confindustrie, per garantire al nostro Paese di andare avanti alla guida di un gruppo.

A questo punto Confindustria non può che appellarsi al presidente del Consiglio affinché il Governo, anche grazie al semestre di presidenza italiano, sappia trovare una soluzione di compromesso accettabile per i guardiani (ad altri fini) di una versione un po' distorta dell'ortodossia libero-scambista (che non è seguita nemmeno dagli Usa), dando così una risposta adeguata alle aspettative di anni, di tanti settori produttivi. Altrimenti, se non riusciremo a salvare la linea Maginot dell'obbligatorietà della misura, tutto si ridurrebbe a una farsa. Una messa in scena ridicola per l'Europa, le sue imprese, i suoi cittadini.

Lisa Ferrarini è Presidente del Comitato per la tutela del Made in Italy e per la lotta alla contraffazione di Confindustria

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