Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 07 agosto 2014 alle ore 11:33.

My24

Una filiera frammentata, ancora poco vocata all'export, schiacciata dalla distribuzione. Un tessuto produttivo solido, plurispecializzato, focalizzato sulla qualità, su cui la crisi ha iniziato a battere solo da un paio d'anni senza però minarne i fondamentali.
Sono i due volti della food valley di Parma, dove multinazionali come Barilla, Parmalat e Nestlè, medie imprese come Parmacotto e Mutti, consorzi delle due Dop regine (Parmigiano reggiano e Prosciutto di Parma) e centinaia di piccole realtà (tra mulini, pastifici, caseifici, aziende conserviere vegetali e animali) creano un modello industriale unico. Un gioiello del made in Italy di tradizione che vale 7,6 miliardi di euro di business, un migliaio di aziende (per 1.200 unità locali, ma appena un sesto ha più di dieci dipendenti) e 14mila posti di lavoro dipendente, che si stima raddoppino con stagionali e indotto.
Un gioiello che sta perdendo luminosità. A dirlo non sono tanto i numeri congiunturali presentati poche settimane fa dall'Unione parmense degli industriali in occasione dell'assemblea annuale, che descrivono una filiera che si è fermata ma non arretra – complice un export praticamente raddoppiato negli ultimi dieci anni, 1,32 miliardi nel 2013, anche se per il 70% è costretto ancora dentro i confini europei – quanto invece i dati dell'ultimo Osservatorio provinciale sul mercato del lavoro, che allarga lo sguardo a tutte le dimensioni di impresa, perché la crisi batte più forte sulle piccole aziende senza marchio e mercato estero. La produzione industriale complessiva, secondo l'Osservatorio, è tornata negativa nel primo trimestre 2014 (-1,5%) smentendo le attese di ripresa degli industriali, trascinando al ribasso le assunzioni e raddoppiando la Cig straordinaria. «E l'alimentare, che una volta si distingueva per l'anticiclicità, ora è allineato alla media del manifatturiero. Il sistema è malato, ma il rimedio è a portata di mano», afferma Luca Ferrari, segretario generale Flai Cgil Parma. La medicina è «stringere i legami di filiera, la coesione tra agricoltori e industriali, recuperando lo spirito che ci portò negli anni Sessanta a essere l'unica provincia in Italia con contratti di lavoro provinciali, per la filiera delle carni e del pomodoro. Il prosciutto di Parma compete in Germania con quello spagnolo e non è il prosciuttificio di sei addetti che può guidare la sfida».
Sono sensazioni e non statistiche, quelle dei sindacalisti locali che parlano di «un raddoppio delle pratiche di disoccupazione negli ultimi quattro anni nell'alimentare, l'ultimo settore a essere toccato dalla crisi ma dove si è passati da un tasso di disoccupazione fisiologico del 2% del 2007 all'8% e a farne le spese sono soprattutto i soggetti deboli: di extracomunitari se ne vedono sempre meno in giro nel Parmense». Sentiment che le aziende confermano. «La filiera sta pagando, in ritardo, il conto della stagnazione del mercato interno. Lo sforzo degli imprenditori si legge nel +8,8% di export alimentare nei primi tre mesi 2014, in recupero rispetto all'anno prima – rimarca il direttore dell'Upi, Cesare Azzali –, ma l'industria del food sconta il basso grado di apertura all'estero (l'export pesa un 17% sul fatturato contro oltre il 60% dell'impiantistica) e meccanismi di internazionalizzazione molto dispersivi e lenti. È complesso far arrivare un chilo di pasta nella dispensa di una famiglia oltreconfine, senza considerare i problemi sanitari, di etichettatura e di sicurezza nell'alimentare».
Se la via di guarigione è il solco oltrefrontiera, il modo per arrivarci è fare squadra, come testimonia il lavoro messo in atto dal consorzio del Parmigiano reggiano (Dop da quasi 2 miliardi di euro al consumo che assicura lavoro a oltre 20mila operatori) per arrivare nel giro di cinque anni al 50% di export, regolando nel contempo la produzione dei caseifici al fine di garantire la redditività.
Sta iniziando ora a ragionare di programmazione dei volumi, operazione che coinvolge tutta la filiera a monte, il consorzio del Prosciutto di Parma (150 aziende, 1,5 miliardi di giro d'affari), che vive in prima persona le contraddizioni «di un settore che si pensava indenne dalla crisi e invece mostra vive le ferite della contrazione dei consumi. Dopo il boom degli ultimi anni le nostre vendite di preaffettato (la componente a maggior servizio e valore aggiunto) sta segnando il passo. Nessun allarme – invita alla cautela il presidente del consorzio, Paolo Tanara – ma dobbiamo ricalibrare strategie e mercati. L'export pesa per noi ancora solo il 28%; è evidente quindi che per compensare un calo di 2-3 punti di vendite in Italia bisogna correre molto più veloci all'estero (il 2013 si è chiuso con un +2% di export, ndr)».
Anche il comparto delle conserve vegetali – quarto segmento per importanza dopo pasta e pane, conserve animali e lattiero-caseario – vive il malessere generale della filiera, nonostante una propensione all'export doppia (34%). «Il 2013 è stata un'annata difficile – racconta Aldo Rodolfi, vicepresidente della Rodolfi Mansueto di Ozzano Taro, gruppo specializzato nella trasformazione del pomodoro da 65 milioni di fatturato e un centinaio di dipendenti (cui si sommano 300 stagionali) –, soprattutto per la scarsità di materia prima di cui scontiamo tuttora le conseguenze. E pesa il calo dei consumi interni, un -2% in volume per le conserve che diventa un -0,5% a valore. L'export va bene, +17% nel primo trimestre dell'anno, la domanda americana cresce e sono attesi rapidi incrementi anche dal mercato asiatico. La stagione 2014 inizia ora, con la raccolta del pomodoro. Di certo il meteo finora non contribuisce a rasserenare le attese».

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi