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Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2014 alle ore 06:37.

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Proseguendo a est lungo la food valley, verso Modena, il panorama altalenante del settore agroindustriale non cambia. È recente la notizia del ritorno in mani italiane di Italpizza, per salvare la fabbrica di pizze surgelate e i suoi 350 addetti dal rischio di delocalizzazione oltremanica e scommettere su un marchio del made in Italy finora ai margini. Il fondatore della casa modenese, Cristian Pederzini, ha riacquistato dal gruppo inglese Bakkavor – multinazionale alimentare da 19mila addetti e 2 miliardi di euro di fatturato – il 40% del capitale venduto ai britannici nel 2008, con l'impegno a rilevare il restante 60% entro tre anni.
Una riappropriazione che mira anche a ristabilire il primato della vera pizza fatta in Italia. Surgelata, sì, ma prodotta secondo antica tradizione con 24 ore di lievitazione naturale, stenditura a mano e cottura in forno a legna. Perché oggi i leader, non solo all'estero ma anche nella nostra penisola, sono i concorrenti tedeschi di Cameo-Dr Oetker con la loro pizza surgelata made in Germany. «Un'aberrazione cui risponderò con forti investimenti nel marchio e in nuove tecnologie per ristabilire la supremazia italiana», assicura l'ad, rimasto al timone dell'azienda (creata nel '92) anche durante il "regno" inglese e pronto a salire al 100% delle quote in tre anni, attraverso la newco Dreamfood, a un valore «non lontano dai 60 milioni di euro pagati da Bakkavor a suo tempo». In programma, da qui al 2016, ci sono tra i 5 e i 10 milioni di euro di investimenti nel sito di San Donnino (20mila mq lungo l'A1), per lanciare nuove gamme prodotti, come la pizza surgelata senza glutine e quella con farine integrali, e per far decollare il marchio proprio Italpizza «che oggi pesa solo un 10% del fatturato ma deve diventare il numero uno delle pizze surgelate della penisola», è l'ambizione di Pederzini, il precursore dei sistemi di cottura in continuo, un brevetto super copiato dalla concorrenza, per cui oggi è in causa con diverse aziende.
Il 90% della produzione – 60 milioni di pizze ogni anno, 250mila al giorno – è oggi per le private label della Gdo e delle principali catene specializzate in Europa e in Nord America. La proprietà inglese ha permesso una forte crescita globale del business – passato dai 49 milioni del 2008 ai 69 del 2013, con una quota export che ha sfiorato il 100% negli anni Duemila e oggi è al 75% – ma non ha portato investimenti. «A cavallo degli anni Duemila, con l'ingresso nel capitale della famiglia Cremonini (Impero della carne, ndr) – spiega l'ad – destinando tutta la redditività a linee produttive e muri abbiamo trasformato una piccola ditta artigianale in una grande industria nell'alto di gamma. Un patrimonio che rischiavamo di disperdere di fronte alla decisione di Bakkavor di tornare a concentrare la produzione in Gran Bretagna, complice il calo di margini nel settore». Un ritorno alle origini che già a dicembre dovrebbe portare i ricavi oltre quota 80 milioni.
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