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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2014 alle ore 06:38.

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«In Italia siamo grandi, qui dei nani. Dobbiamo crescere, è il mercato ad imporcelo». Francesco Zonin, vicepresidente della casa vinicola vicentina e responsabile commerciale, non ha dubbi. Il mercato statunitense offre al vino italiano grandi soddisfazioni ma le regole del gioco qui sono profondamente diverse, anzitutto dal punto di vista dimensionale. Zonin ha negli Usa il primo mercato estero di sbocco, 55 milioni di dollari di ricavi su un business consolidato in Italia che per il gruppo vale quasi il quadruplo (152 milioni di euro). «Qui però - spiega Zonin - si tratta con operatori che sviluppano un giro d'affari da miliardi di dollari, per poter avere una minima forza contrattuale bisogna avere dimensioni adeguate. Per questo puntiamo ad arrivare a 100 milioni di ricavi entro tre anni».
Dazi e tasse per Zonin non rappresentano un ostacolo rilevante alla diffusione del vino italiano, piuttosto è il sistema distributivo a presentare qualche complicazione. I retaggi del protezionismo sono ancora visibili in una struttura complessa, che prevede più passaggi prima di poter accedere al consumatore finale. Come risultato, il prezzo della bottiglia lievita, con margini che per ciascun operatore sono nell'ordine del 25%-30%.
Qui negli Usa il vino italiano si confronta con concorrenti interni ed esterni ma i successi del prodotto nazionale sono evidenti: l'export per il vino da tavola ha superato gli 800 milioni di euro, a cui si aggiungono altri 224 milioni di spumante. Dei 5 miliardi di export complessivo del vino italiano oltre il 20% finisce dunque negli Usa. Qui Zonin è presente non soltanto in termini di export ma anche attraverso una produzione diretta locale. Nel 1976 il gruppo ha infatti rilevato la più antica tenuta della Virginia, costruita a Barboursville.
100 milioni
Target entro tre anni
Il gruppo punta a raddoppiare le attuali dimensioni negli Usa

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