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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2014 alle ore 13:51.
L'ultima modifica è del 07 ottobre 2014 alle ore 17:54.

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«Se non fosse stato per la Peronospora, gli Stati Uniti non avrebbero mai avuto un Kennedy Presidente», sono soliti raccontare gli esperti della lotta contro le malattie delle piante. Ma se la storia degli Usa può in qualche modo avere un debito di riconoscenza verso il “fungo killer” che nell’800 colpì l’Irlanda, spingendo un milione e mezzo di irlandesi a emigrare, molto meno favorevoli alla Peronospora belbaharii sono gli agricoltori italiani che operano nella produzione del basilico, colpito da questo parassita giunto in Italia nel 2003.

In loro aiuto lavora da anni il team di Agroinnova, il centro per l’innovazione in campo agro-ambientale attivato nel 2002 presso l’Università di Torino, e guidato dal professor Angelo Garibaldi, un ligure che da oltre 50 anni è impegnato nella ricerca contro le malattie delle piante attraverso metodi sostenibili e alternativi all’uso di agro-farmaci.

«Il problema è complesso e non si può risolvere con un’unica ricetta - ha spiegato il professore a una platea di operatori del settore raccolti sabato scorso ad Albenga - lavorarando su diversi fronti possiamo prevenire e in parte risolvere gli effetti di questo fungo sulle colture». Sul mercato esistono da tempo alcuni agro-farmaci il cui utilizzo non può però, da solo, essere la soluzione. E non solo perché la tendenza del settore agroalimentare e dei consumatori si orienta sempre più verso colture biologiche e sostenibili, ma anche perché è dimostrato, ha spiegato il professor Garibaldi, che l’impiego di agro-farmaci favorisce la nascita di ceppi sempre più resistenti del parassita.

La via indicata da Agroinnova è quella della ricerca applicata e del ricorso a soluzioni integrate. Il primo passo, ha spiegato il professore, «è cercare collaborazioni con le aziende sementiere, dato che proprio i semi sono il principale veicolo di propagazione della Peronospora». Anche perché gran parte di questi semi sono importati in Italia da Paesi dove questa malattia è endemica. «Come Agroinnova - dice Garibaldi - abbiamo analizzato alcune partite di semi che presentavano anche fino al 10% di materiale infetto. In queste condizioni non c'è scampo dalla malattia se si pensa che per diffonderla è sufficiente un seme infetto su 1.000. La concia, ovvero il risanamento, del seme con aria calda a 65° C, fornisce già una protezione all'80% contro il fungo». A questo primo passo si possono aggiungere ulteriori misure di sicurezza, elencati da Garibaldi: «il possibile impiego di oli essenziali sotto forma di vapore, come timo e santoreggia; la concimazione condotta con prodotti a base di fosforo . Bisogna poi evitare di creare condizioni favorevoli alla diffusione del fungo: ad esempio non irrigare a pioggia, ma in modo localizzato, quando possibile», conclude il professore.

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