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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 08 ottobre 2014 alle ore 06:55.

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Questa volta è l'Istria a bussare alle porte delle imprese del Nord-Est: nei giorni scorsi, ad Albona, si è tenuta la prima assemblea degli imprenditori veneti e friulani che, lo scorso aprile, hanno costituito la nuova Camera di commercio IstroVeneta. Sessantacinque i soci fondatori: «Cinquanta aziende del Veneto e Friuli sono pronte a trasferirsi in Istria (Croazia) nei primi mesi del 2015 - si legge nel comunicato diffuso dopo l'incontro - Tutti i presenti, imprenditori delle piccole e medie imprese, hanno segnalato l'assurdità del sistema italiano della tassazione sulle aziende e sul personale».
Nell'Istria Croata – fanno sapere i promotori – la paga di un lavoratore si aggira sui 450 euro mensili, più 250 per i contributi, «in una regione che dista due ore di auto dal confine». Già perché qui, avvicinandosi al confine con Paesi che possono offrire minore burocrazia e costi energetici inferiori anche del 30%, il malessere del Nord-Est diventa più forte. In passato l'Austria, in particolare la Carinzia, e la Slovenia, hanno ospitato incontri che hanno fatto il pieno per presentare le opportunità di un insediamento produttivo dentro i propri confini. Un marketing territoriale aggressivo: secondo il report semestrale diffuso in luglio da Aba-Invest, l'agenzia austriaca per gli investimenti stranieri, il bilancio era di un incremento del 29,5% rispetto allo stesso periodo dello scorso esercizio per i progetti di investimento dall'estero, con l'Italia secondo investitore dopo la Germania. Più difficile fare chiarezza sui nomi – una decina quelli noti e accertati – fra riservatezza e manifestazioni di interesse che non sempre si concretizzano. A pesare, sul fronte Croazia, è però la partita dei fondi europei: «Nei prossimi mesi – spiegano in Camera di commercio - il Paese riceverà un miliardo di euro per otto anni. Una cifra considerevole che ha fatto scattare negli imprenditori veneti la volontà di trasferirsi in terra istriana», dove i sindaci delle città interessate già progettano ampliamenti delle aree industriali e artigianali, «con notevoli esenzioni fiscali per chi investirà e creerà posti di lavoro». In diversi centri qui esiste una minoranza di origine italiana (circa il 20%), e il 30% della popolazione parla italiano. «Un centinaio sono le aziende venete trasferite qui negli ultimi anni» fanno sapere dalla Camera di commercio citando come capofila «Benetton, con centinaia di posti di lavoro. Ora il processo sarà coordinato dalla nuovo ente creato con l'aiuto di Unioncamere del Veneto». Ma da Bruxelles, dove si trova, il segretario generale di Unioncamere Gianangelo Bellati invita a non confondere delocalizzazione e internazionalizzazione: «È la seconda la vera chance da cogliere – spiega –. L'Istria è vicina, con un basso costo del lavoro, ed è ragionevole che per non morire qualche azienda decida di trasferire lì alcune produzioni. Inoltre è un presidio per il vicino mercato dell'Est, e offre accesso a fondi europei per collaborazioni e partnership che superano di gran lunga la cifra destinata al Veneto. Internazionalizzare non significa fare la valigia e trasferire tutto oltre confine».
«Non abbiamo alcuan evidenza di un fenomeno di migrazione di imprese del territorio» afferma Sergio Razeto, presidente di Confindustria Trieste. Ma la particolare posizione rende l'area particolarmente esposta alle "sirene" di quei Paesi: «Per evitare che queste voci diventino reali minacce, è necessario modificare i fattori su cui queste aree ora possono fare leva: pressione fiscale sulle imprese, costo dell'energia e burocrazia».
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