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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 19:23.

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Modena - Se l'Italia è fanalino di coda in Europa per attrattività dei capitali stranieri e per investimenti non è solo colpa del sistema Paese ingessato e del nanismo delle sue Pmi familiari sottocapitalizzate. L'ingrediente che oggi manca e che più spaventa gli investitori internazionali è l'assenza di skill manageriali che impediscono il salto globale del made in Italy. A dirlo sono venture capitalist, banchieri, accademici e giuristi riuniti oggi a Modena per la seconda conferenza mondiale del centro studi Gro (Global restructuring organization) dedicato a “Investimenti e sviluppo economico: grandi protagonisti a confronto”, partendo da alcuni dati di confronto eloquenti sui gap reali della nostra imprenditoria.

Perché è pur vero che le nostre Pmi sono più piccole delle cugine d'oltralpe (fatto 100 l'indice dimensionale medio in Europa, le aziende italiane si fermano a 60, quelle tedesche schizzano a 170 e quelli inglesi a 180) ma la proprietà familiare non fa differenza sulla loro competitività comparata. “Le imprese familiari sono l'80% del totale in Francia; l'89% in Germania, l'85% in Italia, l'83% in Spagna e il 79% in Uk, percentuali del tutto allineate – sottolinea Paolo Cavallo, senior advisor del fondo private Capvis equity Partner - ma quelle gestite direttamente dalla famiglia , e non da manager esterni, sono il 67% in Italia contro appena il 26% in Francia, il 28% in Germania, il 35% in Spagna, il 10% in Gran Bretagna”.

È in questi numeri la chiave di volta per rilanciare investimenti e crescita del Paese, maglia nera secondo la classifica Oecd per eccesso normativo, tempi della giustizia, lentezza burocratica, costo del credito e scarsa dotazione digitale. “Ma un Paese prodigo di prodotti di tale qualità ed eccellenza nel food, nella meccanica, nella moda si aprirebbe opportunità enormi di sviluppo sui mercati internazionali, se solo ci si dotasse delle necessarie competenze”, commenta Antonio Tullio, presidente del Gro.

I casi imprenditoriali sfilati oggi a Modena raccontano però che non esiste un'unica ricetta magica per la crescita globale del made in Italy: un colosso metalmeccanico come Wam Group si è internazionalizzato (oggi ha 24 stabilimenti produttivi nel mondo) pur rimanendo saldamente nelle mani del fondatore modenese Vainer Marchesini. A sua volta il gruppo reggiano di motori Landi Renzo ha scelto nel 2007 la strada della Borsa per spalancare le porte dei mercati globali senza però mai dismettere la connotazione familiare. Mentre la Pmi vitivinicola Cerretto non ha invece mai tradito la natura mono-familiare, mono-banca e mono-stabilimento, dicendo no a molte offerte di investitori e partner esteri convinta che fosse l'unica strategia per valorizzare nel mondo il prodotto delle Langhe e assicurarsi la crescita del business (i bilanci per ora gli hanno dato ragione).

Il periodo di saldi seguito a sette anni di recessione ha creato comunque un'offerta quanto mai interessante per lo shopping di imprese, non solo in Italia: “Il 2013 – afferma Donato Iacovone, ceo di EY (Ernest&Young) - è stato un anno record per gli investimenti stranieri in Europa, con 3.955 progetti, in crescita del 4% rispetto all'anno prima ma con un aumento dell'11% come valore degli investimenti, che hanno raggiunto i 1.130 miliardi. L'Italia però è all'ultimo posto in Europa occidentale nelle preferenze degli investitori, serve un cambio di passo”. Iacovone individua negli investimenti nel digitale una delle leve strategiche per ridare slancio al made in Italy. “Ma ciò che serve – dice il presidente Tullio - - è anche un cambio di approccio da parte dei fondi di private equity: la logica speculativa a 3 o 5 anni deve lasciare il posto a un'attività di affiancamento dell'azienda per iniettare competenze manageriale e accompagnarne lo sviluppo internazionale”.

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