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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2014 alle ore 08:12.

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È una partita che si decide ogni anno ai rigori quella tra Italia e Germania per la leadership globale nell'industria meccanica del packaging, ma in termini di tattica di gioco i due giganti devono fare i conti anche con la piccola squadra inglese, che ha in campo atleti efficienti e competitivi.
Ricorrendo a una metafora sportiva è questa la scena che si presenta leggendo la prima analisi finanziaria di Ucima (l'associazione dei costruttori italiani di macchine per il packaging), sui bilanci dei top player europei. Tre studi su evoluzione, performance e indici di redditività e patrimoniali delle prime 100 società del settore in Europa; di tutte le Pmi europee del packaging tra i 5 e i 25 milioni di fatturato e sulle prime 500 imprese italiane.
Tre filoni da cui si evince un'unica strategia per la vittoria del made in Italy: la crescita dimensionale con un'accelerazione del processo di fusioni e aggregazioni già in atto. Su una produzione mondiale di macchine per il confezionamento e l'imballaggio che vale circa 31 miliardi di euro (dato 2012, si stimano 33 miliardi nel 2013), l'Europa pesa un 50% e Italia e Germania arrivano assieme al filo di lana, rappresentando un migliaio di imprese e il 36% dei volumi – poco più di 11 miliardi di euro – equamente suddiviso tra i due Paesi. «Per fatturato, redditività, export, occupazione la partita con la Germania si chiude di fatto con la parità – sottolinea il presidente di Ucima, Giuseppe Lesce, presentando la prima analisi di settore su competitor diretti e potenziali in Europa – e giocata sull'alta qualità e la tecnologia avanzata. Mentre c'è un abisso tra noi e i tedeschi per dimensioni, con le imprese germaniche di stazza doppia rispetto a quelle italiane. Ma è anche vero che se noi giocassimo sul terreno tedesco e non su quello sconnesso italiano, non ci sarebbe più partita».
Trecento società di packaging in Germania fatturano 5,6 miliardi occupando 27.500 addetti. Numeri simili (5,5 miliardi di business, 26.400 addetti) sono distribuiti in Italia tra 600 aziende, il doppio, con una dimensione media quindi dimezzata. «Le nostre imprese, contrariamente a quanto si possa pensare, hanno margini lordi (Ebitda ed Ebit) più alti dei competitor tedeschi in virtù di una migliore gestione del personale – spiega Salvatore Curatolo, professore dell'Università di Parma coautore della ricerca – ma un valore aggiunto sul fatturato più basso rispetto alla Germania (32% contro il 47%) nonostante un forte miglioramento dell'efficienza produttiva (+38%) nell'ultimo triennio. I costruttori italiani hanno pure una redditività delle vendite (Ros) record in Europa, ma anche il più alto grado di leverage e il più basso tasso di capitalizzazione, per quanto stia riducendosi l'indebitamento e crescendo il peso del capitale proprio».
Lesce conferma la «tendenza in atto anche nell'industria nazionale di macchine automatiche a riportare all'interno delle aziende le produzioni, a ridurre le scorte e a risparmiare ogni euro di capitale circolante per tagliare i costi e migliorare l'autonomia finanziaria». Ma la maggior frammentazione e il minor pricing power – aggiunge il presidente Ucima – penalizzano le compagnie italiane nella gestione non caratteristica e nei volumi, a causa di minori economie di scala e di oneri finanziari superiori.
La top 100 europea vede in effetti un solo nome italiano primeggiare per Ros e Ebit, la Opem Spa di Parma (40 milioni di ricavi e un centinaio di addetti nelle confezionatrici), mentre nelle singole classifiche per cash flow, redditività del capitale, leverage, valore aggiunto, liquidità, sono sempre società tedesche a occupare il primo gradino del podio e in generale tutta la parte alta della classifica. Forzando gli indicatori in un unico indice-somma, la vittoria spetta sì alla tedesca MeurerVerpackungssysteme Gmbh seguita dalla spagnola Mespack, ma poi dal terzo al settimo posto sono tutte italiane le Pmi piazzate nella parte alta: la Unitec di Lugo, la Opem in quarta posizione, la vicentina Brevetti Cea, la bergamasca Smigroup, l'astigiana Arol, seguita all'ottavo e al decimo posto dai tedeschi, mentre al nono ritroviamo un'impresa italiana, la fiorentina Neri del gruppo Marchesini (e sono esclusi alcuni colossi del packaging come Gd e Khs che non hanno fornito dati finanziari completi).
Al di là delle pole position, la ricerca Ucima dimostra anche – partendo dall'analisi dei bilanci delle prime 500 delle 600 aziende italiane del settore – come la redditività tendenzialmente cresca al crescere della dimensione aziendale, ma non oltre una certa soglia. «Abbiamo individuato una scala minima di efficienza per i costruttori di macchine automatiche che si posiziona tra i 5 e i 10 milioni di euro di vendite – precisa l'altro curatore dell'analisi, Marcello Tedeschi dell'Università di Modena e Reggio Emilia –. Le imprese in questa fascia hanno una redditività nettamente superiore alla media, per Ros, valore aggiunto, Ebit, utili, perché ottimizzano la gestione dei processi produttivi e del personale. Le imprese minori non hanno la taglia minima per fare economie di scala, le più grandi, oltre i 50 milioni di fatturato, tornano a essere significativamente sottocapitalizzate e sono rigide nella gestione delle scorte di magazzino».
Il cammino di crescita dimensionale tramite M&A è un processo in atto in tutto il Vecchio continente, oggetto del terzo studio Ucima che ha messo sotto la lente i bilanci delle Pmi europee del packaging tra i 5 e i 25 milioni di fatturato: gli indicatori di redditività e solidità finanziaria sono tutto sommato uniformi tra i diversi Paesi, con la rilevante eccezione della Gran Bretagna: «I costruttori inglesi di macchine automatiche hanno una redditività delle vendite due punti sopra la media europea, un'incidenza del valore aggiunto sul fatturato dieci punti superiore, un utile netto più che doppio, una maggiore efficienza nei costi e nel ciclo delle scorte e un grado di capitalizzazione del 10% più alto. Dei veri fuoriclasse, pochi e poco noti, ma in tutti gli ambiti gestionali riescono a marginalizzare di più», conclude Curatolo.

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