Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2014 alle ore 14:32.
L'ultima modifica è del 19 novembre 2014 alle ore 15:39.

My24

Per fortuna che c'è il salvagente dell'export, spiegano politici, economisti e confermano i dati Istat sul commercio estero. Anche se per le Pmi italiane (il 95% del tessuto nazionale) raggiungere Cina o Brasile, avere manager, capitali da investire nel lungo periodo e spesso anche solo parlare un fluent english ancora rappresenta un mix di problemi.

Eppure, non è detto che piccolo non sia bello quando si parla di internazionalizzazione. Perché – a parità di “taglia” – le Pmi tedesche ma anche spagnole fanno meglio delle italiane. E se nel 2018 riuscissimo a raggiungere un'incidenza dell'export sul Pil del 44% (oggi siamo al 30%), pari al dato medio tra l'export/Pil della Germania e quello della Spagna nel 2013, in 3 anni si genererebbero, in Italia, 40 miliardi di euro in più di esportazioni aggiuntive l'anno, una crescita del 9% rispetto al Pil attuale e, di riflesso, 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro.

È questa, in sintesi, l'analisi di Sace («Alla ricerca della crescita perduta») che sarà presentata questa mattina a Roma, nel corso del 3° Forum “Il Coraggio per crescere” di «Valore D». La ricerca mette a confronto le performance di internazionalizzazione delle Pmi tedesche, italiane e spagnole, analoghe per dipendenti e fatturati. Da cui si evince che se non siamo inferiori in termini di produttività, gli sforzi per intensificare il livello di internazionalizzazione non sono abbastanza. E anche gli spagnoli ci battono.

«Tra il 2007 e il 2013 – ha spiegato Roberta Marracino, direttore Area studi e Comunicazione di Sace – il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil è stato di 7,5 punti percentuali in Germania, 4,5 in Spagna, 1,1 in Francia e -0,9 in Italia (pari a circa 13 miliardi in meno a valori costanti). Il saldo import-export positivo di questi ultimi anni è infatti imputabile prevalentemente più a una forte diminuzione delle importazioni, a seguito della riduzione dei consumi interni, che a un salto di qualità in avanti dell'export, che è rimasto pressoché invariato. Germania e Spagna, in particolare, che già nel 2007 registravano rispettivamente un'incidenza dell'export sul Pil del 47% e 31%, hanno ulteriormente accelerato la loro presenza nei mercati esteri nei 6 anni trascorsi e continueranno in futuro ad allungare le distanze. Nel 2017 la Germania raggiungerà un'incidenza dell'export sul Pil del 58% (25 punti percentuali più dell'Italia), la Spagna del 41% (+ 8 punti percentuali). Un risultato ottenuto sia grazie a una strategia di diversificazione dei mercati di destinazione pensata – e realizzata – per tempo, sia grazie a una più generale overperformance su tutte le aree geografiche».

Tra il 2000 e il 2013 le esportazioni tedesche e spagnole verso l'Europa – tanto nelle aree più avanzate, quanto in quelle emergenti – sono cresciute a un ritmo doppio rispetto a quelle italiane. Le merci e i prodotti indirizzati verso i paesi avanzati extra-Ue hanno registrato incrementi superiori di 4-6 volte.

Se la “taglia small” delle nostre Pmi viene spesso additata come il limite principale, Marracino fa notare che in Europa non siamo soli. «Proprio a parità di dimensione, le Pmi straniere hanno una propensione all'export molto più marcata delle nostre. In Germania oltre il 15,2% delle imprese appartiene alla fascia 10-49 dipendenti (rispetto al 4,8% dell'Italia, al 5,2% della Spagna, al 4,6% della Francia), ma il 47% di esse vende merci oltreconfine. Nel nostro Paese le piccole aziende “internazionali” sono solo il 29%, in Spagna addirittura il 48%. Analoghe differenze si riscontrano per le imprese di dimensione superiore (50-249 dipendenti e oltre 250 dipendenti)». Secondo un'indagine Istat condotta su 30mile imprese con oltre 20 dipendenti, tra il 2010 e il 2013, il 51% di esse ha visto crescere il proprio fatturato estero e in 2/3 di questi casi i risultati sui mercati internazionali hanno mitigato la riduzione del fatturato domestico.

«Se riuscissimo a raggiungere nel 2018 un'incidenza dell'export/Pil del 44% (pari al dato medio Germania-Spagna nel 2013) – ha ribadito Marracino – potremmo accrescere le vendite estere di circa 40 miliardi di euro l'anno (+9% rispetto al Pil attuale). E senza andare in mercati troppo difficili. Metà di questo maggior export, infatti, potrebbe essere recuperato nei mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita: circa 13 miliardi attraverso una migliore penetrazione di 5 paesi (Cina, Polonia, Algeria, Turchia e India), altri 6 miliardi in Medio Oriente (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Kuwait), in Sud America (Messico e Brasile), in Asia (Corea del Sud, Repubbliche del Caucaso, Vietnam), ma anche in Tunisia, unico paese ancora ragionevolmente tranquillo sulle sponde del Mediterraneo».

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi