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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2014 alle ore 17:47.

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(Corbis)(Corbis)

Non è un lavoro facile e i risultati si ottengono solo sul lungo periodo. Ma investire «sin dal giorno uno» sull’internazionalizzazione, come dice il manager Andrea Guerra (ex ceo di Luxottica), è l’unico strumento che consentirà alle aziende italiane di crescere. Perché viviamo in un «momento storico straordinario» – è la tesi del convegno sul tema organizzato ieri a Milano da Arel, Abi e PwC – in cui le imprese possono contare su un mercato-mondo che entro il 2020 avrà 800 milioni di consumatori in più nella classe media e 200 milioni in più nella fascia dei ricchi.

Solo questi ultimi, ha ricordato il capo della segreteria tecnica del Mise Stefano Firpo, porteranno entro 15 anni una crescita dell’export globale di 200 miliardi, di cui l’Italia potrebbe intercettare il 10-15%.

Le potenzialità ci sono: a settembre 2014, come rileva una ricerca elaborata da Pwc per il progetto Expo Business Matching, le esportazioni sono aumentate dell’1,5%, sostenute dai mercati extra-Ue (+4,1%). I prodotti made in Italy si confermano ai vertici della classifica mondiale del commercio internazionale nei settori di forza dell’Italia (beni strumentali, moda, arredo, alimentare...). Ma su circa 4 milioni di Pmi presenti in Italia, solo 200mila esportano: il 50% del fatturato estero (145 miliardi) è realizzato da 1.300 imprese con oltre 1.300 addetti e il 40% da Pmi che hanno tra i 10 e i 249 dipendenti, ha spiegato Vincenzo Grassi di PwC. L’obiettivo del governo, attraverso il pacchetto di azioni inserite nel decreto Competitività e nella legge di Stabilità (220 milioni in tre anni) è aumentare il numero di imprese che esportano stabilmente.

«Si stimano 70mila potenziali aziende», ha aggiunto il direttore generale di Abi, Giovanni Sabatini, che ha indicato nelle dimensioni ridotte delle aziende italiane il principale ostacolo alla loro globalizzazione e all’accesso dei capitali: «In un contesto globale del credito che vede aumentare le regole, sarà sempre più difficile per le banche concedere finanziamenti a imprese poco aperte a strutturarsi secondo i criteri internazionali di governance e trasparenza», ha detto. Tocca insomma anche alle imprese fare la propria parte, come ha ricordato Guerra: «Le aziende italiane che hanno avuto successo all’estero sono quelle che hanno allargato da subito il proprio raggio d’azione al mondo intero, con una strategia di lungo periodo, che hanno puntato non solo sulla qualità del prodotto ma anche sul marchio, e che si sono aperte ai capitali».

Affidarsi soltanto finanziamento delle banche infatti non basta più: lo dimostra il fatto che abbiamo le aziende più sottocapitalizzate d’Europa. Occorre sfruttare strumenti nuovi (fondi, cartolarizzazioni, assicurazioni...) e in questo senso una grande responsabilità hanno anche le istituzioni, come ha sottolineato Gianni Letta, ex premier e segretario generale di Arel, che devono allargare la platea dei soggetti finanziatori e agevolare l’accesso agli strumenti alternativi di finanziamento per le imprese non quotate. «Tutti devono fare il loro – ha detto Letta –: Stato, banche e imprese». Ma l’internazionalizzazione non è un «one way ticket», ha aggiunto: «un’Italia aperta e forte nel mondo è un’Italia che sa attrarre investimenti dall’estero».

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