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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2015 alle ore 10:19.
L'ultima modifica è del 13 gennaio 2015 alle ore 12:33.

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Terremoto appalti nella Marina Militare, altri sette arresti stamattina tra Taranto, Roma e Napoli dopo quello di marzo scorso a Taranto. Alcuni imprenditori tarantini erano costretti a pagare sino al 10 per cento del valore dell'appalto per ottenere commesse, ma soprattutto i pagamenti, dalla forza armata. Un anno fa, però, una delle vittime ha rotto il “giocattolo”, svelato il meccanismo delle tangenti e permesso ai Carabinieri di arrestare un ufficiale di Marina, responsabile di un ufficio di Maricommi, uno degli enti della Marina che si occupano del funzionamento della grande base navale di Taranto. Gli arrestati di oggi, tutti condotti in carcere, rispondono di concorso in concussione. Sono cinque ufficiali della Marina, un sottufficiale e un dipendente civile.

Nei mesi scorsi, mentre l'indagine di Carabinieri e Procura di Taranto prendeva quota, alcuni ufficiali erano stati trasferiti dalla Marina da Taranto a Roma, allo Stato maggiore Difesa e allo Stato maggiore Marina. Il fatto che alcuni imprenditori di Taranto in rapporti di lavoro con le strutture della Marina fossero stati costretti a pagare mazzette, emerse un anno fa, quando a marzo 2014 fu arrestato dai Carabinieri il capitano di fregata Roberto La Gioia in servizio nella base navale di Taranto-Chiapparo. Fu in quell'occasione, infatti, che saltò la contabilità dei soldi versati dagli imprenditori e cominciò e la ricerca dei complici di La Gioia, arrestato in flagranza di reato nel suo ufficio e condotto in carcere con l'accusa di concussione per aver intascato una busta di 2mila euro (le banconote erano state fotocopiate).

Si trattava di soldi che un imprenditore aveva dovuto versare per vedersi corrispondere regolarmente i pagamenti. Secondo l'accusa, infatti, le imprese che non si piegavano, subivano ritardi nell'accredito dei pagamenti contrattuali. Nel caso specifico era in ballo un appalto da 650mila euro. Dopo l'arresto, i Carabinieri perquisirono gli uffici di quattro imprese di Taranto, i cui titolari, secondo le indagini, si sarebbero sottomessi alle pretese dell'ufficiale di Marina. A fare da guida furono dei file sequestrati al militare nel corso dell'arresto. Quei documenti erano su due pen drive che La Gioia custodiva in una valigetta. Nelle “pennette” fu trovato un elenco di imprese. Accanto ad ognuna, era riportato il valore dell'appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti equivalenti al 10 per cento dell'importo della commessa. Un sistema nel quale apparve chiaro il coinvolgimento di altre persone sulle quali si è poi concentrato in questi mesi lo sviluppo delle indagini coordinate dal pm di Taranto Maurizio Carbone.

L'imprenditore aveva infatti raccontato ai Carabinieri di essere stato costretto a girare 150mila euro in più tranche all'ufficiale per garantirsi il pagamento delle fatture emesse dalla sua impresa, titolare dell'appalto per il ritiro e il trattamento delle acque di sentina dalle navi ormeggiate a Taranto e Brindisi dove la Marina ha un altro presidio. L'imprenditore ha anche rivelato il tentativo di coinvolgerlo nelle manovre per pilotare una gara d'appalto, per la quale è finito sul registro degli indagati un altro imprenditore con l'accusa di tentativo di turbativa d'asta. Dopo la denuncia, l'uomo ha collaborato con i Carabinieri permettendo di svelare il sistema, mentre dopo l'arresto i Carabinieri hanno perquisito l'appartamento di La Gioia trovando 36mila euro in contanti. Altri 8mila sono stati rinvenuti nella cassaforte del suo ufficio nella base navale oltre alle pen drive con la contabilità occulta. Sulla base degli accertamenti, il capo di imputazione modificato da concussione in concorso in concussione, la stessa accusa che stamattina ha portato in carcere altre sette persone.

Nell'ordinanza sugli arresti, il gip di Taranto, Pompeo Carriere, parla tra l'altro di «vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell'agire della malavita organizzata, ma con - in peggio e in più - l'aggravante dell'essere tali deplorevoli condotte poste in essere da dipendenti (civili e, in massima parte, militari) dello Stato che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza». Secondo il gip, il sistema ideato faceva si che gli imprenditori concussi fossero vittime di una «vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all'altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito».

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