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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2015 alle ore 06:37.

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KUWAIT CITY

È difficile convincere della necessità di riformare un Paese che nel 2013 ha avuto un surplus di una quarantina di miliardi di dollari (il quindicesimo anno consecutivo di avanzo); che nel 2014 ha prodotto circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno e ha riserve garantite per i prossimi 86 anni; che ha un Pil pro capite da 50mila dollari, un rating Moody’s da Aa2 e un fondo sovrano da 400 miliardi di dollari, cioè il doppio dell’ultimo Pil calcolato.

È quasi comprensibile che chi governa il Kuwait, i suoi parlamentari e il milione e 200mila cittadini vivano in una specie di virtuosa pigrizia davanti alla fatica di dover modificare alcuni fondamenti del sistema. Fra tanta bonanza, come accusare di populismo un’Assemblea nazionale – l’unico vero parlamento nel Golfo – che propone di aumentare da 177 a 354 dollari l’indennità mensile per ogni bambino, anche se questo significherebbe aumentare di quasi quattro miliardi la spesa pubblica?

Ma il Kuwait deve fare importanti riforme. Non solo perché nel frattempo il prezzo del barile si è dimezzato; né perché il 50% dei kuwaitiani ha meno di 21 anni e il 60 meno di 24, cullati da un sistema scolastico mediocre e da una rete di sussidi che non stimolano la competitività. Constatando la caduta del prezzo del greggio, qualche settimana fa l’amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale, Nizar al-Adsani, notava che la caduta del prezzo del greggio «minaccia» la realizzazione dei mega-progetti. Nel caso del Kuwait si tratta di un sistema di metropolitane da 25 miliardi di dollari, del progetto di nuovi ospedali (24,8), dello sviluppo di Silk City (88,7), un grande progetto di riconversione di un’economia fondata sugli idrocarburi.

Questi e altri – per esempio la privatizzazione delle linee aeree nazionali, le peggiori del Golfo – erano gli obiettivi del Piano di sviluppo 2010-15, un quinquennio in gran parte vissuto col barile di petrolio ai massimi. Tuttavia la maggioranza di questi obiettivi non ha superato la fase della progettazione: è stato speso solo il 39% di ciò che era previsto. Perché il problema del Kuwait non è il prezzo del petrolio ma la sua innata ostilità alle riforme. A XXI secolo avviato non c’è Paese ricco che possa rinunciare agli investimenti internazionali. Nel decennio 2000/2011 l’Arabia Saudita ha attratto investimenti per 180 miliardi di dollari, 83 gli Emirati, 38 il Qatar, 11 il Bahrein. Il Kuwait meno di due miliardi, soprattutto concentrati nel settore delle telecomunicazioni e delle assicurazioni. Le opportunità abbondano ma la burocrazia tiene lontani gli investitori.

Come spiega Fabrizio Nicoletti, l’ambasciatore italiano, «negli altri Paesi del Golfo l’economia nazionale è un’impresa di famiglia», quella che governa. «In Kuwait invece c’è uno Stato con un Parlamento. È questo che spinge le imprese italiane alla cautela». Il fondo sovrano Kuwait investment authority «per tradizione non ama l’investimento veloce: se entra in un affare lo fa per restare, preferendo la sicurezza al rapido guadagno». Tuttavia il Kia è entrato con 500 milioni di euro nel Fondo strategico italiano offrendo un modello che molti altri dovrebbero imitare.

Diversamente dagli altri regni ed emirati del Golfo, il Kuwait ha una stampa libera e un parlamento democratico: almeno nel paragone regionale. Ma sono proprio queste istituzioni moderne – le più avanzate del Paese – la principale resistenza alle riforme, insieme all’apparato burocratico. I risultati più immediati sono due: nonostante si facciano piani di riconversione dagli anni Sessanta, l’economia nazionale resta fondata sul petrolio che garantisce il 90% degli introiti. Le riserve garantite per i prossimi 86 anni sono una sicurezza. Ma ora con i nuovi prezzi del barile, il surplus è stato eroso: nel 2015 ci sarà un deficit di bilancio da 27 miliardi di dollari.

Il secondo effetto negativo è il ruolo estremamente minoritario dell’impresa privata che garantisce meno del 25% del Pil e assorbe solo il 6% della manodopera kuwaitiana. Quello di cui ha bisogno l’emirato è semplicemente una rivoluzione capitalista.

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