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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2015 alle ore 06:38.

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L’industria musicale si aggrappa con sempre maggiore forza al digitale. E il bicchiere per le majors appare al momento più pieno che vuoto.

I dati del Digital Music Report di Ifpi (la federazione internazionale dell’industria discografica) che saranno presentati ufficialmente da Fimi (la federazione che rappresenta l’industria musicale italiana) domani a Napoli rappresentano la base numerica sulla quale poggiano le convinzioni di un’industria che sa di essere alle prese con una trasformazione rilevante, da considerare tuttavia come «una grande opportunità», dice Andrea Rosi, presidente Sony Music Entertainment.

Innanzitutto i dati del rapporto dicono che nel mondo i ricavi determinati dai servizi di musica digitale, per la prima volta, hanno pareggiato quelli generati dai supporti fisici. I ricavi “digitali” sono cresciuti del 6,9% raggiungendo un valore di 6,9 miliardi di dollari arrivando così a pesare per il 46% sulle vendite di musica globale. L’altro 46% è rappresentato dal mercato fisico (scesi dell’8,1%) con un 8% derivante dai diritti di riproduzione e sincronizzazione. Non è così in Italia dove - secondo i dati dell’ultima indagine Deloitte-Fimi - il mercato fisico pesa ancora due terzi del totale (con 75,3 milioni di euro), anche se in caduta rispetto all’anno precedente (-5%). Allo stesso modo il mercato italiano per il 2014 risulta in controtendenza vista la sua crescita del 4% con volume d’affari salito a oltre 122 milioni di euro (si parla di sell-in, e quindi di vendite effettuate dall’impresa agli intermediari commerciali, non ai consumatori finali). A livello mondiale invece i ricavi totali nel 2014 risultano tendenzialmente stabili, con una flessione dello 0,4% per un valore di 14,97 miliardi di dollari.

Il report Ifpi mostra a ogni modo un’industria in continua trasformazione, con consumatori che sembrano sempre più pronti ad accogliere i nuovi modelli di accesso ai servizi musicali tramite servizi di streaming gratuito e in abbonamento. Una testimonianza è l’impennata dei ricavi dati da servizi in streaming (+39%) che bilancia il declino del download (-8%) e guida i ricavi digitali, mentre il numero dei consumatori a pagamento per i servizi musicali è cresciuto del 46,4% raggiungendo quota 41 milioni. «I dati suggeriscono - spiega Marco Alboni, presidente di Warner Music - che per tutto il sistema, e quindi noi, artisti, consumatori, c’è un’esigenza di rinnovarsi. Attenzione però, perché alla base per avere successo occorre avere sempre talenti e grandi canzoni. La tecnologia di per sé non può sostituirsi».

In questo quadro, i servizi streaming rappresentano il 23% del mercato digitale e generano un ricavo trade di 1,6 miliardi di dollari. E l’industria prevede una sostanziale crescita potenziale nel settore degli abbonamenti, con i nuovi servizi in avanzamento nel 2015 guidati dai tre principali competitor di Spotify a livello globale: YouTube Music Key, Tidal di Jay Z, piuttosto che il servizio di sottoscrizione targato Apple.

La crescita dello streaming, ha comunque alimentato il dibattito riguardo alla remunerazione degli artisti nell’ambiente digitale. Del resto, rispetto ai download e ai cd i servizi di musica in streaming usano un nuovo modello di pagamento: gli artisti ricevono una somma determinata dall’accumulo di micropagamenti accumulati nel tempo. «È senz’altro un discorso complesso - precisa Rosi (Sony) - in una fase di evoluzione e con meccanismi che hanno bisogno di assestamento». Per quanto riguarda l’Italia, «la penetrazione del digitale è inferiore rispetto ad altri Paesi. Qui, al di là dei gap strutturali, la sfida è far conoscere al pubblico le possibilità di usufruire della musica digitale in maniera legale». Dall’altra parte, aggiunge Enzo Mazza, presidente Fimi, «una delle principali partite per l’industria musicale, se non la principale, è ora quella legata ai servizi gratuiti, remunerati dalla pubblicità. Il problema insomma del value gap, con l’industria che sta cercando di ottenere condizioni migliori». In un tale contesto è comunque interessante secondo Mazza concentrarsi sul tema delle remunerazioni degli artisti, proprio in un momento in cui si torna a parlare con insistenza di artisti che puntano sull’autoproduzione. «Dico solo - aggiunge Mazza - che mi sembra che molti degli artisti che hanno intrapreso questa strada stanno tornando indietro». Dall’altra parte invece, precisa Mazza, «in Italia tra il 2009 e 2014 il mercato dei cd ha perso il 25 %, con download cresciuti del 39 % e streaming dell’82 per cento. A fronte di questi dati in una dinamica nel quale i ricavi sono scesi complessivamente del 14 % la percentuale delle royalty agli artisti è salita del 16 %, segno che le nuove fonti di ricavo sono comunque in grado di assicurare una percentuale maggiore di ricavi».

.@An_Bion

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