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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2015 alle ore 06:37.

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Una fiera alimentare da 75mila metri quadrati, con 900 espositori e un esercito di migliaia di responsabili acquisti di catene americane della grande distribuzione. Soprattutto una presenza italiana senza precedenti, tale da meritarsi l'inconsueta nomina a “Host Country”, Paese ospitante: 52 aziende frutto di inedita cooperazione fra tre fiere, Fiere di Parma, Verona Fiere e Fiera Milano, con l'appoggio di Federalimentare, dell'Ice e del ministero per lo Sviluppo economico rappresentato, a Chicago, dal viceministro Carlo Calenda. Con un obiettivo ambizioso: aumentare la visibilità del “made in Italy” autentico - e la sua disponibilità sugli scaffali d'America - per conquistare quote di mercato ancora non sfruttate e stimate in miliardi di dollari, prima ancora di un accordo di libero commercio tra Usa e Unione europea che pure Calenda pronostica, su aspetti cruciali, all'inizio dell'anno prossimo.

La FMI Connect di Chicago, nel cuore del Midwest, è un evento con partecipanti selezionati che spesso passa sotto i radar. Ma, con 15mila visitatori attesi in tre giorni da tutti gli Stati Uniti e da 73 paesi, è un evento “B2B”, business to business, che conta in un mercato che conta - e molto - per l'Italia: incontri con retailer, seminari su prodotti italiani, networking per allargarsi nella patria mondiale dei consumi. L'Italia nel primo trimestre 2015 è già salita al settimo posto nella graduatoria dei fornitori Usa dall'ottavo dell'anno scorso, quando aveva registrato un aumento dell'export del 6,2% a 4,28 miliardi. Dalla prospettiva opposta, quale mercato di destinazione italiana, gli Stati Uniti sono al terzo posto.

«Per l'Italia si tratta di portare sempre più prodotti - dice Calenda -. Il potenziale inespresso per l'intero made in Italy negli Usa potrebbe essere tuttora di 9,2 miliardi, segno che restano il nostro primo mercato potenziale». Un potenziale oltretutto al netto del Ttip, che porterebbe in dote fino ad uno 0,5% al Pil italiano e che Calenda è comunque convinto si avveri «entro i primi mesi del 2016» sui capitoli meno controversi, tariffe e convergenza di regole e standard, e su un tema che sta a cuore all'Italia quale le denominazioni di origine geografica, Dogc. L'ultimo vertice G7, ricorda il viceministro, ha «ribadito la volontà di un'intesa». E recenti accordi di reciprocità tra Italia e Canada serviranno da modello.

Ma una forte strategia di promozione statunitense, aggiunge, è il modo migliore per arginare il fenomeno dell'”Italian sounding”, l'imitazione legale di cibi italiani che dai sondaggi rispecchia in parte una domanda di prodotti autentici, dirottata dalla difficoltà di reperirli. Una sfida non facile ma da raccogliere per un universo aziendale italiano composto, oltre che di duemila grandi imprese, di 12.500 società di medie dimensioni e di 59mila piccole aziende. Calenda ha anche sottolineato il lancio di un fondo governativo da 20 milioni di euro per finanziare l'assunzione temporanea di “export manager” destinati ad aiutare i gruppi meno attrezzati per l'esportazione.

Il made in Italy è oggi primo nei vini come nei formaggi, nell'olio di oliva, nei prosciutti disossati, nella pasta. «Ritengo tuttavia che possiamo crescere anche a ritmo del 15% quest'anno», ipotizza Calenda. Un traguardo aiutato dai 260 milioni di euro stanziati per l'Ice e un Piano straordinario di promozione su scala internazionale che ha uno dei fulcri negli Usa: dei 72 milioni previsti per Food & Beverage nel prossimo anno, 44 milioni saranno spesi qui. Da ottobre nel mirino saranno quattro stati, New York, Illinois (lo stato di Chicago), Texas e California. I pilastri sono il marketing e accordi proprio con grandi distributori, da Price Chopper a Mariano's. «Stiamo realizzando un grande sforzo» spiega Roberto Luongo, direttore generale dell'Ice.

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