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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2015 alle ore 06:58.

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Un settore fondamentale per la ripresa e la crescita dell’economia italiana, soprattutto attraverso il potenziamento dell’internazionalizzazione delle sue aziende. Non a caso, l’industria alimentare italiana è stata dichiarata lo scorso anno tra i «settori di rilevante interesse nazionale» dal Governo, e rientra tra gli asset di investimento prioritari del Fondo Stategico Italiano (Fsi, società di investimento partecipata all’80% da Cassa depositi e prestiti e al 20% dalla Banca d’Italia), che ieri all’Expo di Milano ha fatto un primo bilancio del suo impegno nel sostegno della filiera e presentato le prossime mosse.

«Siamo partner naturali nello sviluppo dell’export dell’alimentare italiano – ha spiegato l’ad di Fsi Maurizio Tamagnini – perché il nostro scopo è investire nelle aziende sane e ad alto potenziale di sviluppo sui mercati esteri, la cui crescita abbia un importante impatto in termini di indotto sul territorio italiano». Per questo il Fondo (che ha un capitale di rischio complessivo di 5,1 miliardi e finora ha operato investimenti per 2,8 miliardi in dieci aziende di diversi comparti industriali) ha avviato in questi anni un dialogo con molte imprese del settore alimentare, con l’obiettivo prioritario di sostenerne la distribuzione e la promozione all’estero, favorendo i processi aggregativi e le sinergie tra aziende e filiere.

Al primo investimento – realizzato con i fondi sovrani di Qatar e Kuwait su Inalca (la società del gruppo Cremonini specializzata nella produzione di carni bovine e prodotti trasformati) – ne seguiranno altri, ha assicurato Tamagnini. Le operazioni saranno rivolte a promuovere lo sviluppo «verticale» del comparto, ovvero a creare aziende dimensionalmente rilevanti nei principali settori, e «orizzontale», attraverso la creazione di piattaforme per la distribuzione all’estero di prodotti made in Italy. «Crediamo molto in questo settore, destinato a crescere nei prossimi anni, di pari passo con la crescita della popolazione mondiale e della fetta di questa popolazione che chiede cibi e bevande di qualità, in cui il nostro Paese è leader mondiale».

Un impegno che suona come una conferma della scommessa lanciata nemmeno una settimana fa, proprio a Expo, dalla stessa industria alimentare italiana che, durante l’assemblea di Federalimentare, si è candidata a motore della ripresa italiana, con l’obiettivo di portare entro cinque anni le esportazioni a 50 miliardi (dagli attuali 27,1 miliardi, dati Federalimentare). Per riuscirci, ha ribadito ieri il presidente dell’associazione, Luigi Scordamaglia, occorre superare «alcune criticità intrinseche alle aziende stesse, trovando gli strumenti adatti per risolverle». Il Fondo Strategico è uno di questi. Perché, spiega Scordamaglia, «opera a condizioni di mercato, perciò lontano da logiche assistenzialiste. Ma non è un private e, facendo investimenti sul lungo periodo, può intercettare le esigenze delle imprese meglio di un fondo tradizionale».

Tra le criticità del sistema, al primo posto sono la frammentarietà della filiera e le ridotte dimensioni delle imprese. Solo 12 aziende italiane attive nell’alimentare hanno un fatturato che supera i 500 milioni, ha ricordato Maurizio Tamagnini. Di queste, le tre più grandi (Ferrero, con 8 miliardi di fatturato, Barilla e Cremonini, ciascuna con 3 miliardi) sono ben lontane dai principali competitor globali: la svizzera Nestlè (87 miliardi di euro) e le statunitensi Mondelez (31 miliardi di euro) o Kraft-Heinz (26 miliardi). L’87% delle aziende, inoltre, ha meno di 10 addetti e soltanto l’1,5% (che da solo rappresenta il 75% delle esportazioni) ha più di 50 dipendenti.

Al problema delle dimensioni si aggiungono il mancato ricambio generazionale e la scarsa apertura al mercato dei capitali, con il risultato di una struttura manageriale e finanziaria spesso inadeguata ad affrontare i mercati globali. Come ha rilevato Marco Costaguta, presidente di Long Term Partners, nonostante il suo potenziale l’Italia è solo al sesto posto in Europa per esportazioni nell’agroalimentare, con 33 miliardi di euro di export (dati 2013) e un saldo negativo (-6 miliardi) della bilancia commerciale. «Raggiungere l’obiettivo dei 50 miliardi di export permetterebbe di creare 100-150mila posti di lavoro – ha aggiunto – e non è un obiettivo impossibile». Si tratta, tra le altre cose, di aprire il capitale delle aziende a soci industriali e finanziari; consolidare il mercato interno; sviluppare prodotti e comunicazione per i mercati esteri; rinnovare la struttura manageriale».

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