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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2015 alle ore 06:37.

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La svalutazione dell’euro allenterà la pressione dell’import; il calo della quotazione di petrolio ridurrà il vantaggio degli Usa sui costi legato all’impiego di gas naturale; la domanda potrà consolidarsi con la ripresa.

Il Rapporto 2014-2015 sull’Industria chimica in Italia diffuso ieri nel corso dell’assemblea di Federchimica fonda su questi baluardi la convinzione che per la chimica europea il quadro congiunturale nel 2015 dovrebbe risultare più favorevole. L’Unione europea pesa il 17,2% sul totale della produzione chimica mondiale (prima la Cina con il 33%) e nel 2014 ha mostrato un andamento della produzione definito «deludente: +0,7%». Il trend negli ultimi anni della chimica europea (sulla quale l’Italia pesa il 10% in termini di produzione che le valgono il 3° posto; 10° nel mondo) «riflette senza dubbio - si legge sempre nel Rapporto - la debolezza dell’economia. Tuttavia è opportuno chiedersi se sia anche il sintomo di una perdita di competitività», pur nella consapevolezza che «è un settore di specializzazione dell’industria europea che genera un ampio avanzo commerciale pari a 44 miliardi nel 2014».

È anche per questo che la Ue e le politiche comunitarie sono state al centro dell’assemblea di Federchimica cui hanno partecipato i vicepresidenti del Parlamento europeo Antonio Tajani e David Sassoli. Del resto, come ha ricordato lo stesso numero uno di Federchimica Cesare Puccioni durante la sua relazione, «i temi delle politiche energetiche, degli accordi commerciali con altre aree del mondo, in primis con gli Usa, e dell’economia circolare sono al centro della nostra attenzione».

Temi, questi, in cui l’Europa può e deve farla da padrona. Qualsiasi discussione però deve passare attraverso una disamina onesta della situazione, fa capire Sassoli, partendo da una consapevolezza: «Questo assetto istituzionale così com’è non va. E va sicuramente rivisto». Troppa, spiega Sassoli, è la forza frenante di «quegli Stati che si pongono il solo problema di fare i conti con la propria opinione pubblica». La Grecia e la questione immigrazione ne sono la testimonianza, mentre un’Europa più coesa potrebbe far leva su alcuni vantaggi. «Un’impresa europea che voglia produrre principi attivi in Usa deve subito sborsare 60mila dollari all’Agenzia del Farmaco, mentre a un’azienda americana basta un’autocertificazione», spiega Sassoli facendo così riferimento al Ttip, l’accordo di libero scambio tra Ue e Usa al centro di negoziati. In tutto questo però «ci sono associazioni come la vostra molto presenti e che ci fanno sentire la loro vicinanza esprimendoci anche le loro istanze. Questo è di fondamentale importanza».

«Serve una politica industriale europea per uscire dalla crisi e serve più Italia in Europa» ha detto dal canto suo Antonio Tajani per il quale «il Piano Juncker è la più chiara testimonianza di questa consapevolezza». Certo, come ha ricordato lo stesso ex commissario europeo con delega all’Industria, «molto si può fare per facilitare la vita delle imprese riducendo oneri e costi».

E qui l’attenzione non può che virare su politiche energetiche e climatiche. Sul primo fronte «non è più sostenibile che in Italia l’energia costi il 30% più che in Francia o che la media del costo europeo sia tre volte quello Usa e quattro volte quello cinese. Va dunque completato quanto prima il progetto di un’Unione dell’energia». In questo senso c’è un pacchetto del commissario Sefcovic attualmente al vaglio di Parlamento e Consiglio. Sul versante climatico, c’è la riforma del sistema europeo per lo scambio delle quote di emissione di gas a effetto serra (Ets). L’accordo finale in approvazione definitiva dalla Plenaria di Strasurgo a luglio «è un esempio di connubio necessario tra industria e clima».

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