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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2015 alle ore 06:37.

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MILANO

Per UberPop l’esperienza italiana finisce qui. Ieri il tribunale di Milano ha deciso che il servizio di trasporto più libero e economico di Uber, quello con l’autista “fai da te” per intenderci, deve essere sospeso.

Il giudice delle imprese conferma quindi la sospensiva cautelare stabilita un mese fa, dopo un ricorso avanzato a maggio da 16 cooperative di taxisti. L’argomento utilizzato è stato quello della concorrenza sleale, evidentemente condiviso anche dal tribunale.

Il servizio era stato introdotto a Milano, Genova, Torino e Padova, a partire da maggio 2014, e prevedeva che un qualsiasi conducente “improvvisato”, con caratteristiche di affidabilità (regolare patente da almeno 3 anni, fedina penale pulita) potesse utilizzare la propria auto per qualche ora al giorno, come in una sorta di dopo-lavoro, per accompagnare gli utenti, a costi di poco superiori ad un rimborso spesa (e con un 20% da versare ad Uber che funge da centrale delle chiamate). L’iniziativa ha preso vita a Genova, poi ha avuto un boom particolarmente significativo a Torino. Ma da oggi fine.

Più nel dettaglio, per il tribunale di Milano mancano requisiti di trasparenza e sicurezza. La sentenza dice che «nel suo complesso il sistema dei prezzi di UberPop non ha regole predeterminate e trasparenti, e non va a vantaggio dei consumatori». Per quanto riguarda la sicurezza, per i giudici «appare di interesse pubblico primario tutelare quella delle persone trasportate sia tramite garanzie di efficienza delle autovetture utilizzate, sia tramite garanzie di idoneità, serietà ed equilibrio dei conducenti, sia tramite adeguate coperture assicurative».

Infine, le due considerazioni aggiuntive: «Appare evidente che Uber non vale a limitare in alcun modo l’inquinamento o la concentrazione del traffico» e che addirittura può essere «rischioso per i giovani».

I vertici di Uper, che stanno valutando nuove azioni legali, spiegano invece che gli autisti di UberPop hanno adeguate coperture assicurative, dovendo inoltre rispondere a precise caratteristiche di sicurezza.

La decisione di ieri riguarda il solo segmento UberPop, mentre l’applicazione UberBlack continua a funzionare a Roma e Milano. Si tratta, in questo caso, del taxi con conducente professionista con auto di proprietà, dotato di partita Iva, il cui servizio viene prenotato tramite la App di Uber.

Da dire che nemmeno UberBlack, introdotto in Italia nel 2013, ha avuto vita facile: il caso più eclatante è quello di un ricorso da un giudice di pace, in cui un autista di Uber ha perso la causa (con costi salatissimi) per aver violato una vecchia legge sull’autorimessa obbligatoria, che prevede che un taxista, una volta effettuato un servizio, debba tornare al parcheggio prima di prendere una nuova chiamata.

Finora però non si era mai preso di mira la società Uber, ma solo singoli episodi occasionali. La madre di tutti i ricorsi è una legge del 1992, che non menziona modalità di trasporto alternative al taxi. Sfruttando questo vuoto normativo le associazioni dei taxisti hanno così dato battaglia alla società americana, che oggi è regolarmente utilizzata in 56 paesi del mondo ma che da noi trova resistenze culturali.

Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber Italia, commenta così la conferma della sospensione di UberPop: «In tutte le sedi abbiamo cercato di dimostrare che un’apertura del mercato gioverebbe a tutti, operatori e consumatori. Oggi abbiamo visto l’ennesima interpretazione delle norme di una legge del 1992 che governa ancora il sistema della mobilità italiana. Quelle stesse norme che sia per l’Authority dei trasporti che per quella per il Mercato e la Concorrenza andrebbero aggiornate».

Ed è vero che sia l’Authority per i trasporti che l’Antitrust si sono espresse con parole diverse da quelle dei giudici (e delle associazioni dei taxisti). Per il garante dei trasporti basterebbe introdurre delle regole, per esempio «il conducente privato dovrebbe essere un lavoratore occasionale, tenuto al rispetto di un tetto massimo di reddito annuale e ad un limite di lavoro settimanale non eccedente le quindici ore, e tutti i conducenti dovrebbero essere iscritti in un apposito registro costituito su base regionale».

Per il garante della Concorrenza, nell’audizione del 24 giugno alla Camera, «l’inadeguatezza delle norme vigenti emerge anche in considerazione delle nuove possibilità offerte dalle piattaforme di comunicazione on-line tra utenti e operatori Ncc e taxi, che consentono un miglioramento della mobilità».

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