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Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2015 alle ore 06:37.

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Tokyo

Non è ancora nata e già viene considerata da vari esperti come la più grande sfida all’ordine finanziario globale nato a Bretton Woods e dominato dall’Occidente. Ma la nuova banca per le infrastrutture promossa dalla Cina (Aiib), più concretamente, sta provocando effetti sostanziali, spingendo un Giappone timoroso di perdere influenza regionale e che non ha aderito all’Aiib (a differenza degli altri alleati Usa) a incrementare i finanziamenti all’Asia emergente. La riprova si è avuta alcuni giorni fa quando, al termine del settimo vertice Japan-Mekong, il premier Shinzo Abe ha annunciato con la “New Tokyo Strategy 2015” un forte incremento degli aiuti finanziari ai 5 Paesi del Mekong (Thailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar e Laos), che passano da 600 a 750 miliardi di yen (6,1 miliardi di dollari) per i prossimi tre anni. “Oda” che si inseriscono in un piano quinquennale complessivo da 110 miliardi di dollari - Partnership for Quality Infrastructure Investment - annunciato da Abe a maggio per l’intero continente, che confluirà in parte nei programmi (anch’essi decisamente rafforzati) dell’Asian Development Bank (Adb), la tradizionale banca asiatica per lo sviluppo guidata da Tokyo e Washington per la quale la Aiib potrà rappresentare una seria concorrente.

I Paesi del Mekong (210 milioni di abitanti) rappresentano la metà degli aderenti all’Asean, che sta per diventare a fine anno una Asean Economic Community (Aec): situati in posizione geograficamente strategica – tra India, Cina e il Mar Cinese Meridionale – e caratterizzati da consistenti tassi di crescita, sono un terreno naturale di competizione tra Tokyo e la Cina (che fa parte essa stessa della Greater Mekong Area). Un punto importante messo a segno dal Giappone è stata la firma contestuale dell’intesa triangolare con Myanmar e Thailandia per dare la spinta definitiva al decollo della zona economica speciale di Dawei, un’area del sud di Myanmar - nella regione di Tanintharyi - prospiciente il mare delle Andamane che fino a non molto tempo fa non era nemmeno connessa al resto del Paese.

Il progetto (che richiede investimenti per almeno 50 miliardi di dollari) risale al 2011 ma è rimasto finora in sostanziale stallo. Dopo la firma, il premier thailandese Prayut Chan-o-cha ha dichiarato che Dawei diventerà «un nuovo hub distributivo per il mondo». Oltre 200 chilometri quadrati di insediamenti industriali e persino minerari, con un grande porto di profondità e il terminale del costituendo “Corridoio Sud del Mekong” fino alle coste meridionali del Vietnam. Sarà una rivoluzione nella connettività intraregionale con conseguenze sui traffici globali e quindi anche sulle “supply chain”: basta pensare che oggi per portare merci dalle confinanti Myanmar e Thailandia occorrono fino a 21 giorni perché le navi devono circumnavigare la lunga penisola malese, mentre con il corridoio via terra (che richiede anzitutto miglioramenti di almeno tre ponti in territorio di Myanmar) ci vorranno meno di due giorni.

I finanziamenti giapponesi per il decollo definitivo della Special Economic Zone di Dawei si inseriscono nel piano di aiuti per 100 miliardi di yen offerto da Tokyo a Myanmar per lo sviluppo delle sue infrastrutture, nel contesto di una generosità verso tutti che va dai piani preliminari per l’alta velocità in Thailandia fino ai fondi per rimuovere le bombe inesplose in Laos. Per ironia della sorte, Jin Liqun – nominato settimana scorsa da Pechino come candidato alla guida della Aiib – dieci anni fa, da vicepresidente della Adb, aveva sollecitato Giappone e imprese private a investire in modo più aggressivo nelle infrastrutture fisiche per la regione del Mekong. I Paesi dell’area, naturalmente, accetteranno ben volentieri finanziamenti anche da Aiib e Cina. Del resto, l’esser balzato in prima fila per Dawei potrebbe per Tokyo non significare più di tanto, visto che poi potrebbero essere le imprese cinesi ad avvantaggiarsi in modo più che proporzionale delle infrastrutture costruire con i soldi dei contribuenti nipponici.

In cambio della sua munificenza, Abe ha ottenuto che i leader esprimessero preoccupazioni per i recenti sviluppo nel Mar Cinese Meridionale: un velato riferimento alla Cina e alle sue attività di espansione artificiale di isolotti, senza però che Pechino venisse citata per nome. Se poi il Giappone insiste sul fatto che i suoi finanziamenti vanno a progetti infrastrutturali «di qualità», è anche vero che chiude un occhio sul persistente autoritarismo a Myanmar (esponenti della comunità birmata a Tokyo hanno protestato contro il presidente Thein Sein fuori dai cancelli della Akasaka State Guest House) o sui ritardi in Thailandia nel ritorno alla democrazia rappresentativa. Per non parlare, infine, delle controversie che accompagnano il progetto Dawei, contrastato da parte delle comunità locali con l’appoggio di Ngo ambientaliste internazionali.

Il Giappone aveva avuto modo alla fine di luglio di dare un’altra prova del suo ruolo primario nelle dinamiche del trading internazionale: alle Hawaii- dopo la concessione di poteri speciali al presidente Obama da parte del Congresso - i ministri dei 12 Paesi che stavano negoziando la Trans-Pacific Partnership si erano riuniti con l’obiettivo di raggiungere un accordo di massima. Così non è stato e molto è dipeso dalle relazioni tra Tokyo e gli Usa e dalle sue pretese verso altri Paesi, come il Vietnam. Uno sblocco della Tpp avrebbe facilitato la conclusione delle trattative di libero scambio tra Ue e Giappone, il cui undicesimo round è terminato il 10 luglio a Bruxelles: all’ultimo vertice Ue-Japan è stato concordato di cercare di raggiungere una intesa di massima entro la fine di quest’anno.

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