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Pavlovsky: «Chanel è al 50% made in Italy»

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INTERVISTA

Pavlovsky: «Chanel è al 50% made in Italy»

PARIGI. Per spiegare al fantomatico marziano di Ennio Flaiano cosa sia l’understatement, Bruno Pavlovsky e la famiglia Wertheimer sarebbero perfetti. Il primo è il presidente della divisione Fashion di Chanel e della sua vita privata si sa pochissimo: ha 51 anni, 25 dei quali passati a lavorare per la maison francese fondata nel 1909 da Mademoiselle Coco. Alle sfilate della maison Pavlovsky c’è sempre, ma non siede mai in prima fila. È sorridente, cordiale e persino ciarliero, ma guai a chiedergli quanto sia il fatturato del colosso del lusso. Dei fratelli Alain e Gerard Wertheimer, proprietari al 100% di Chanel, si sa ancora meno ed è difficile persino trovare una loro fotografia recente, benché siano tra gli uomini più ricchi di Francia.

Secondo le stime degli analisti, i ricavi 2013 di Chanel – il cui business è diviso nelle tre macroaree Fashion, Watches & Fine Jewelry e Fragrances & Beauty – avevano sfiorato i 5,5 miliardi di euro, in aumento dell’8,5% sul 2012, un tasso di crescita rimasto costante dal 2010 e che presumibilmente sarà uguale nel 2014; l’utile netto 2013 di Chanel aveva superato gli 800 milioni e quasi la metà del fatturato era riconducibile alla divisione Fragrances & Beauty, trainata dal mitico profumo Chanel N° 5.

Moda24 ha incontrato Pavlovsky prima della sfilata haute couture di martedì scorso, allestita a Parigi, al centro del Grand Palais: sui numeri, come sempre, ha glissato, limitandosi a dire che «il 2015 sarà un anno molto difficile per tutti i marchi del lusso».

Monsieur Pavlovsky, il 1° dicembre Chanel sfilerà a Roma con la collezione Mètiers d’art, nata nel 2002 per mostrare il savoir faire artigianale. Come mai questa scelta?

Le sfilate Chanel di prêt-à-porter e haute couture sono sempre a Parigi, mentre quelle della collezione Mètiers d’art hanno girato il mondo. In Italia mancavamo dal maggio 2009, quando organizzammo a Venezia la sfilata della cruise 2009-10. Roma è una città straordinaria, una location perfetta, e anche per Karl Lagerfeld sarà un’emozione particolare (il direttore creativo di Chanel è molto affezionato a Roma grazie al legame con Fendi come stilista del prêt-à-porter donna, una collaborazione che dura dal 1965 ed è la relazione più longeva che si conosca tra un designer e un marchio, ndr). Last but not least, l’11 dicembre abbiamoinaugurato a Roma una nuova boutique, che sta andando benissimo, grazie alla clientela locale e ai turisti.

Quanto conta l’Italia per Chanel?

È importantissima, da ogni punto di vista.Metà della nostra produzione di abbigliamento e accessori è fatta in Italia, in piccole fabbriche o laboratori sparsi in tutte le regioni e ai quali ci legano rapporti spesso ultra ventennali. Io sono arrivato nel 1990 e alcune di queste partnership esistevano già e da allora si sono rafforzate. Sono made in Italy moltissime scarpe, borse, capi di maglieria e parte del prêt-à-porter e del denimwear: in Italia avete un grandissimo know how anche nel campo del jeans.

E l’Italia come mercato?

In termini di mero fatturato, non è ai primi posti, come del resto non lo è più la Francia. I numeri sono molto più grandi negli Stati Uniti o in Cina, ad esempio. Ma per un marchio europeo del lusso essere presenti e apprezzati in Italia e Francia è fondamentale e i negozi che abbiamo qui e in Europa in generale devono essere delle vere e proprie ambasciate.

Nel 2014 avete aperto una decina di boutique, tra le quali quella di quattro piani a Roma, in piazza di Spagna, disegnata da Peter Marino. Nel 2013 era stata la volta di un vero e proprio “tempio Chanel” in Bond Street, a Londra, sempre firmato Marino, che si stima sia costato oltre 40 milioni. E nel 2015?

Siamo arrivati a circa 180 boutique ma continueremo a investire, anche se sarà un anno molto difficile e, forse ancora più del 2014, imprevedibile dal punto di vista economico e finanziario. Ma da Chanel viviamo quasi come una missione quella di continuare a far sognare i nostri clienti e non facciamo differenza tra chi compra un profumo e chi può permettersi un abito haute couture. Quest’anno apriremo o ci saranno relocation, tra le altre, in Thailandia, Corea, Messico e a Panama e Francoforte. Sono poi previste boutique all’aeroporto di Osaka, in Giappone, e al Terminal 5 di Heathrow.

Il travel retail è cambiato?

Una volta negli aeroporti si compravano soprattutto profumi e piccoli accessori, oggi si vende di tutto. Le persone viaggiano sempre di più e nei grandi hub preferiscono passare il tempo tra un volo e l’altro facendo shopping, invece di impigrirsi in una lounge, per quanto lussuosa possa essere.

Quanto conta invece il canale wholesale?

È marginale, soprattutto nei nuovi mercati, dove preferiamo, quando le leggi locali lo permettono, gestire tutto direttamente. L’eccezione sono gli Stati Uniti, che assorbono il 90% del nostro business wholesale, ma è tutto riconducibile ai department store di lusso, che consideriamo in realtà dei partner e che negli anni hanno contribuito al grande successo di Chanel.

E internet? Borse iconiche come la 2.55 sarebbero perfette per l’e-commerce, ma per ora non sono disponibili.

Vendiamo già alcuni prodotti, come gli occhiali (in licenza a Luxottica, ndr), ma non ci interessa arrivare a grandi volumi. Non escludiamo di usare l’e-commerce per progetti speciali, però crediamo molto di più nell’esperienza in boutique, l’unico luogo in cui trasmettere vere emozioni e fornire il migliore dei servizi possibili. Non significa che internet non ci interessi, sia chiaro: abbiamo 7 milioni di fan su Facebook, oltre un milione di follower su Twitter e siamo attenti a ogni evoluzione tecnologica, oltre che sociale o culturale Ma il lusso deve essere un’esperienza fisica.

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