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Dolce&Gabbana: «Esportiamo lo stile di vita italiano»

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Economia & Finanza

Dolce&Gabbana: «Esportiamo lo stile di vita italiano»

«Ci sono molti sarti più bravi di noi: saremmo degli stupidi se sostenessimo di essere migliori di Caraceni e di altri italiani che hanno fatto la storia della sartoria made in Italy. Ma qui in corso Venezia a Milano lanciamo la nostra visione di uno stile di vita: un progetto che non ha competitor, dedicato a persone che vivono in un “altro” mondo, fatto di impegni personali e professionali di altissimo livello e di passione per l'esclusività».

È sabato 31 gennaio, la mattina dell'elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono in una delle otto preziose stanze di Palazzo Labas, la nuova sede del progetto Alta sartoria maschile, un'ora prima della sfilata riservata a 150 selezionati clienti provenienti da tutto il mondo, così come il giorno precedente avevano fatto con l'Alta moda donna nel foyer del Teatro alla Scala (alcuni sono qui grazie proprio al passaparola delle mogli o compagne). Il Palazzo ha origini cinquecentesche: ristrutturato ai primi dell'Ottocento da un allievo del Piermarini (l'architetto più famoso della sua epoca, grazie, tra gli altri, proprio al progetto del teatro La Scala), da alcuni anni era sottoposto a un restauro conservativo orchestrato dai due stilisti che, con un investimento di 5 milioni, hanno riportato alla luce mille metri quadrati di affreschi, intonacati di bianco dalla precedente proprietà.

La sfilata di 64 modelli (non soltanto giovani) si snoda tra i 635 metri quadri del piano nobile, sopra la boutique, la barberia, il negozio delle scarpe su misura, il bar Martini e il ristorante. Nelle stanze punteggiate da camini di marmo, fregi dorati, poltrone ottocentesche e parquet antichi sono stati aggiunti sedie e lampadari di Gio Ponti, tappeti di Fornasetti, tavoli di Buffa e altri pezzi di mostri sacri dell'architettura e del design nazionali, acquistati alle aste. Un vero e proprio scrigno che fa da pendant a un'altra eccellenza made in Italy: quella, appunto, della sartoria maschile. «Un'idea di Domenico – puntualizza Gabbana – che all'inizio mi preoccupava, forse perché avevo paura di sbagliare».

All'ultimo piano, infatti, lavorano 25 specialisti in camice gessato tagliando, cucendo e addirittura dedicandosi a maestosi ricami. Sotto la guida di Andrea, il giovane responsabile dell'ufficio stile dell'alta sartoria, e di Giulio, il più maturo responsabile della manifattura, si osserva la più rigida tradizione sartoriale italiana, quella che, puntualizzano gli stilisti, «deve creare le giuste proporzioni su misura, coniugando stravaganza e classicità, assecondando chi ama la moda ma non vuole essere alla moda, declinando il guardaroba dal completo gessato al tuxedo, dal cappotto alla pelliccia, dal pigiama all'intimo, arrivando perfino alla ciabatta da camera».

Andrea e Giulio sono le persone che viaggiano nel mondo per raggiungere i clienti in Angola e in Venezuela, in Russia e negli Stati Uniti, ovunque ci sia un uomo disposto a spendere cifre importanti per indossare una giacca su misura che può richiedere da 25 a 50 ore di lavorazione, sempre confezionata con tessuti italiani, magari utilizzando la seta per cravatte per realizzare uno smoking impreziosito da bottoni in oro e onice, o una camicia con 26 punti fatti a mano. E sono, ovviamente, pronti a soddisfare le richieste di abiti e accessori tradizionali di altre etnie o religioni o a lanciarsi in stravaganti innovazioni come la fodera in organza che svela le preziose lavorazioni normalmente nascoste.
«Quando nel 2012 abbiamo chiuso la linea giovane D&G e dichiarato che volevamo diventare una vera casa di moda italiana, sul modello di Chanel, qualcuno ci ha presi per matti», dicono Dolce e Gabbana, che producono tutto in Italia (tranne una piccola parte di sneakers). «Con la sartoria uomo, come del resto con l'alta moda donna, stiamo realizzando un sogno: sono sei mesi che lo stiamo testando qui a Milano, dove riceviamo i nostri clienti privati su appuntamento, in un ambiente che non ha uguali». E dove la filosofia è l'opposto della delocalizzazione produttiva scelta da parecchi big della moda.

Tutto è curato nei minimi dettagli: dai carrelli vintage che ospitano liquori d'annata ai bauli in morbida pelle dove le 300 categorie di tessuti – come la vicuña 13 micron – divise per occasioni d'uso sono fissate su cartellette dipinte a mano.
Per il marchio milanese, fondato nel 1985, è Londra la città in cui viene ordinato il maggior numero di capi sartoriali, anche se è sempre stata Milano il luogo fisico dove si cuciono gli abiti (per l'alta moda donna ci sono 85 sarte al lavoro in via Nino Bixio, di fianco al quartier generale di viale Piave). «La nostra intenzione – dicono ancora Dolce e Gabbana – è di valorizzare al massimo l'artigianalità made in Italy: oggi si parla troppo di soldi e poco di contenuti. Con l'Alta sartoria e l'Alta moda torniamo alle radici dei valori più profondi della cultura e della tradizione italiane: l'investimento è importante, sia a livello personale e professionale sia a livello imprenditoriale. Ma qui andiamo oltre le cifre: siamo certi che questo business diventerà redditizio, perché qui nessuno fa beneficenza!».

E, a proposito di numeri, per Dolce&Gabbana l'esercizio fiscale al prossimo 31 marzo si chiuderà, secondo il preconsuntivo, con una crescita del fatturato consolidato del 7,1% a 1,03 miliardi di euro. Il margine Ebitda è stimato nel 18% dei ricavi e il margine Ebit nel 10%, in linea con i dati dell'esercizio precedente, con una posizione finanziaria netta positiva per 355 milioni (rispetto ai precedenti 334).
Per l'azienda l'anno appena trascorso è stato inoltre importante per un altro motivo: dopo sette anni di contenzioso anche penale con l'Agenzia delle Entrate per una presunta evasione fiscale, che aveva preoccupato non poco pure i 4.487 dipendenti diretti nel mondo, a ottobre è arrivata l'assoluzione in Cassazione con formula piena «perché il fatto non sussiste». Nonostante il “fardello” giudiziario, comunque, lo sviluppo non si è bloccato: per le 41 nuove aperture di boutique dirette, arrivate a quota 145 su un totale di 316, sono stati investiti quasi 32 milioni.
«Siamo cresciuti in questi anni – concludono i due stilisti – e soprattutto abbiamo scelto qual è il nostro perfetto posizionamento. Lusso è un vocabolo che si è svilito, se rappresenta una borsa in plastica. Ma lusso significa libertà di fare ciò che si vuole. Come costruire una vera casa di moda italiana, eclusiva e unica nel suo genere».

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