New York, metropoli paradigmatica della cultura occidentale, è un coacervo di contrasti, di frizioni esibite ma non conciliate. Quella che però le riassume tutte, volendo forzare la semplificazione per gusto di paradosso, è la sempiterna opposizione tra uptown e downtown, tra lusso wasp, asciutto e vagamente moralistico – l’etica protestante è intrecciata al dna stesso della americanità – e ruvidità cool.
La moda pesca da sempre in questi due mondi opposti e speculari. Questa stagione più di altre. Non è certo una novità dirompente, ma in un momento di blandizie e persistenti deja-vu, è già qualcosa. Per Diesel Black Gold, la linea ammiraglia di casa Diesel, downtown non è soltanto la scelta estetica del nero e di una attitudine sprezzante, ma proprio dislocazione geografica: lo show, ospitato negli spazi splendidamente delabrè di un palazzo patrizio, probabilmente una banca, si svolge a Wall Street, giù che di più non si potrebbe nell’isola di Manhattan.
A questo punto del percorso stilistico, il codice sviluppato da Andreas Melbostad, direttore creativo, è chiaro: prevede linee affilate e contrasti forti di maschile e femminile, funzionalismo off e precisione fuori registro, conditi da riff underground e da un uso perverso delle metallerie industriali, trattate alla stregua di decori preziosi. L’alchimia varia poco da una collezione alla successiva, ma questa volta le compattezze dei capispalla squadrati contraddette da lampi di pizzo e languori da boudoir meccanico sono particolarmente riuscite, e se gli echi di Helmut Lang persistono, è perchè a New York, e non solo, non lo dimentica nessuno.
Le lady degagè di Michael Kors, ai piedi stringate maschili ridotte a pantofole, o issate su grossi tacchi, il corpo avvolto in cappotti di volpe, giacche di tweed voluttuoso e mantelli di broccati sontuosi, sfiorato ma mai segnato da abiti tagliati in sbieco che si aprono in godet danzanti sotto il ginocchio, sono il genere di personaggio che si vede solo nell’upper east side. Esibire, e sforzarsi d’apparire, per queste donne è peccato capitale, e infatti Kors cita come personaggi di riferimento Carolyn Bessette Kennedy e Wallis Simpson, la Duchessa di Windsor, paradigmi stessi di understatement all’americana, e dichiara «l’opulenza di oggi deve essere rilassata, e severa» producendosi in una collezione ad alto tasso di nonchalance, carnale ma, a ben guardare, non poi così severa.
L’opulenza di Thom Browne è compiaciutamente, beffardamente funerea, ma in qualche modo meno rigida che in passato, con il costume che lascia spazio ad una idea di donna, se non reale, almeno possibile, e lo humor fosco ma non criptico.
Da Tory Burch la collisione di Marocco e Chelsea di traduce in un tripudio di texture tappeto e in una immagine di chic bohemienne cosí perbene, ma anche così stereotipata, da risultare, per assurdo, irresistibile. In guise diverse, quelle che si vedono questi giorni in passerella sono figure volitive e decise, mai bambole.
Le suffragette con il basco di Marc by Marc Jacobs fanno dell’attivismo l’occasione per inusitati collage che accostano slogan politici e raffinatezze liberty, borchie e William Morris, con la leggerezza sventata che solo le ultime generazioni riescono ad avere.
Le panterone di Rodarte, invece, sono un bandolo di eccitanti contraddizioni: portano le cuissardes sotto vestine impalpabili e giacche maschili su pantaloni da mistress. L’estetica del fatto in casa, tipica di Rodarte, si attenua, e il sex appeal si amplifica, con successo.
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