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L’inno alla geometria di Fendi, la cristallina classicità Max…

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MILANO MODA DONNA

L’inno alla geometria di Fendi, la cristallina classicità Max Mara

Non è forse più di moda lanciare proclami e messaggi attraverso i vestiti. L’immagine è tutto, ma ogni cosa si consuma sventatamente sulla superficie, senza mai eccederne il perimetro. Sono allora i dettagli a suggerire chiavi di lettura inattese: atteggiamenti, modi, scelte istintive. Milano, in questi giorni di collezioni autunno-inverno 2015-16, è ricca di segni rivelatori: lacerti lanciati come ami solo in direzione di chi li vuol cogliere. Indizi che possono anche passare inosservati, senza per questo intaccare l’integrità dell’apparenza.

La strelizia nella borsa è la sigla che persiste nello show di Fendi. Un fiore alieno e a tutta prima innaturale, tutto spigoli e protrusioni che paiono disegnati con il righello e coloriti con l’aerografo. Eppure, di un fiore vero si tratta. Karl Lagerfeld - la cui fervida inmaginazione più gli anni passano e più diventa spericolata - da sempre esplora una estetica ibrida tra artificiale e naturale, e Fendi è il laboratorio nel quale cotanta verve sperimentale trova terreno fertile di espressione. Questa stagione, però, sull’argomento spinge proprio al massimo l’acceleratore, trovando una sintesi dadaista tra disinibizione materica e purezza assoluta del design.

La collezione è, formalmente, un inno alla geometria, dal persistente gusto anni ’30: vite alte, allungamenti, un senso di costruzione simultanea per moduli alla Sonia Delaunay. Ma è giusto una labile impressione: non si avverte alcuna sbavatura didascalica. Domina piuttosto un gusto beffardo dello spiazzamento: la nudità è suggerita da texture di pelliccia, il piumino si gonfia, candido, fino a diventare astrazione protettiva; le scarpe sono un misto di industriale e animale, le borse prodigi di intarsio. Pannelli accoppiati sfaldano le gonne in appiombi inesorabili, mentre la pelliccia è presenza costante ma, molto più del solito, il tessuto si fa protagonista. Dei ’30, a ben guardare, Lagerfeld, con Silvia Venturini Fendi, coglie il tratto senza tempo: l’ottimismo e il dinamismo, valido oggi più che mai. Manca forse un po’ di leggerezza, ma va bene così.

Anche Francesco Scognamiglio si muove lungo i binari di una elevata artigianalità italiana: le sue creazioni riescono ancora a catturare, in quest’epoca di spersonalizzazione meccanizzata, il gusto raccolto del piccolo atelier, il tocco perfettamente imperfetto dell’umano. Quest’ultima prova è languida e cinematografica, fatta di trasparenze liquide e glamour delicato. L’apertura è drammatica, in nero, ma il percorso si chiude in chiaro, fino a portare la fragilità del nudo sulla pelle stessa del vestito.

Le sfilate di questi giorni sono per qualche verso paradossali. Defiscono infatti i tratti di una femminilità metaforicamente morbida, impalpabile, anche quando al centro del discorso è uno sfrontato sex appeal. Da Max Mara le note di accompagnamento parlano di certi indimenticabili scatti, privati e intimi, di Marilyn Monroe, ma è giusto una posa: i capelli scarmigliati, le braccia conserte. Per il resto, è una teoria di cappotti dai volumi avvolgenti, di leggeri maculati in pastelli off, di gonne e golfini di cristallina classicità.

Da Les Copains il glamour abbagliante e il decorativismo compiaciuto, evidenti nelle pailettes tridimensionali che percorrono le lunghe maglie, nelle broche portate con tutto, a illuminare il volto, è fresco anziché protervo. La collezione, disegnata da Stefania Bandiera, è sofisticata e precisa, e muove entro i canoni dell’eleganza anni ’70, cui a questa tornata proprio non si può sfuggire.

Andrea Incontri distribuisce stampe geometriche su tutto, in una ricerca leggera di sincretismo tra abito e ambiente, ma poi sbilancia astutamente gli equilibri con appuntite killer shoe.

La ragazza di Blugirl ha deciso, saggiamente, che la coerenza è virtù dei matusa, e per questo esplora senza timori le proprie differenti personalità. Mescola cappottoni maschili e motivi Liberty, stampe ornitologiche e francesine spazzolate, anni ’70 e bon ton, con una naturalezza accattivante.

Da Just Cavalli, il mélange di sempre è elevato all’ennesima, con gusto esibito dell’incoerenza. Manca forse un pizzico di sfrontatezza che, a ben guardare, del lessico Cavalli è il tratto che mai delude.

Da Moschino, Jeremy Scott rinuncia a cartoon e fumetti e guarda invece alla cultura hip hop e alla strada. Lo fa proprio in modo letterale, spiaccicando graffiti su ballgown e rasi preziosi, carpendo pezzi oversize al guardatoba delle fly girl.

Oppure, è nero totale: un annullamento cromatico che equivale a un reset con ripartenza. Ne è autore per Costume National Ennio Capasa, affilato, androgino e metropolitano come non mai.

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