«Il dato sul fatturato 2014 dell'industria italiana del tessile-moda nel complesso è positivo e lo stesso vale per l'andamento della filiera, che è cresciuta in ogni sua parte. Purtroppo però la ragione è unicamente la crescita dell'export, mentre i consumi interni continuano a calare (-4%), anche se in misura minore rispetto al 2013, e l'occupazione continua a contrarsi».
Claudio Marenzi, presidente di Sistema moda Italia (Smi), riassume così il quadro dell'anno passato e – sulla base delle stime fatte con l'università Liuc – anticipa che nel primo semestre 2015 lo scenario dovrebbe simile. Nel 2014 il fatturato è arrivato a 52,393 miliardi (+3,3%) con un export di 28,484 miliardi, dato superiore ai livelli pre-crisi del 2008 (27,586 miliardi). Per i primi sei mesi di quest'anno si prevede un aumento di ricavi ed export, rispettivamente, del 2,8% e 3,3%. «Il nostro settore è fatto da circa 48mila aziende e diamo lavoro, direttamente, a 411mila persone, ma se consideriamo l'indotto il peso del tessile-moda aumenta moltissimo ed è uno dei motori della ripresa del Paese – sottolinea Marenzi –.
Certo, i problemi da risolvere restano, a partire dall'occupazione: nei mesi scorsi si è parlato molto di reshoring, di aziende che starebbero riportando in Europa e in Italia la produzione delocalizzata in Asia, ad esempio. Ma si tratta perora di numeri marginali, che potrebbero aumentare con, ad esempio, una diversa politica sul “made in” obbligatorio».
Il riferimento è alla normativa sull'etichettatura di origine, approvata dal Parlamento europeo ma bloccata dalla Commissione per il veto imposto dalla Germania. «Come Smi, stimiamo che il “made in” avrebbe risparmiato almeno 30mila dei 100mila posti di lavoro persi tra il 2008 e il 2013 – spiega Marenzi –. Sto cercando di parlare da mesi con il omologo tedesco, senza riuscirci. La Germania teme gli effetti del “made in” su settori strategici come l'automotive. Posso capirlo, ma per il tessile-moda la legge è fondamentale e bisogna tornare a un tavolo con i Paesi più coinvolti, come Italia, Spagna, Portogallo e Francia». Secondo il presidente di Smi il piano “Horizon 20/20”, con cui Bruxelles vuole portare dall'attuale 12% al 20% il Pil manifatturiero dell'Unione europea entro il 2020, «è inattuabile se non si approvano misure che aiutino i settori industriali dei Paesi del sud Europa, oltre che della Germania».
C'è spazio però anche per l'autocritica: «Sono stufo dell'espressione “fare sistema”, preferisco parlare di necessità di aggregarsi meglio e in modo più efficiente. Il piano del Governo per l'internazionalizzazione va nella direzione giusta, stanziando aiuti per le fiere meritevoli e ricordo che tra le prime cinque ce ne sono 4 del nostro settore: Pitti, Milano Unica (tessuti), Micam e Mido. Anche noi presidenti di associazioni e noi associati però dobbiamo imparare a collaborare di più».
Un motivo di cauto ottimismo viene poi dall'analisi della situazione della Russia, terzo mercato dopo Francia e Germania per il prêt-à-porter donna, spiega Gianfranco Di Natale, direttore generale di Smi, appena tornato dalla fiera Cpm di Mosca. «Gli economisti non si fanno illusioni, la crisi del Paese durerà almeno altri due anni, ma per il tessile-moda italiano il calo dell'export sarà più contenuto del previsto». Secondo Di Natale «Mosca non imporrà sanzioni mirate sull'abbigliamento made in Italy, perché l'indotto locale, fatto soprattutto dal canale retail, dà lavoro a oltre 20mila persone e nessuno ha interesse a indebolirlo».
Previsioni confermate da molte aziende dell'alto di gamma dopo la settimana della moda di Milano che si è chiusa lunedì : «Come amministratore delegato di Herno e membro della Camera della moda – ha concluso Marenzi – posso dire che i buyer russi hanno mantenuto i loro budget invariati per la stagione A-I 15-16».
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