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Il riciclo emozionante di Walid Damirji

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Il riciclo emozionante di Walid Damirji

«Non mi piace il circo della moda usa e getta. Mi rivolgo a quanti hanno superato questa idea e vogliono qualcosa di autentico e unico» racconta a Moda 24 Walid Damirji. Nato in Iraq, londinese d’adozione, Damirji usa esclusivamente materiali vintage, raccolti nel corso di infiniti tour nei mercatini di tutto il mondo e poi tagliati, tinti, assemblati in capi dalla sorprendente facilità, insieme scabri e opulenti. La collezione, battezzata semplicemente By Walid, si pone in una nicchia singolare: coniuga un indubbio ed evidente preziosismo - vista la natura della materia prima, ogni pezzo è per forza di cose diverso dall’altro e realizzato in un numero limitato di multipli – con una ricerca di pragmatismo urbano.

Le forme sono basiche, quasi prive di sesso: il cappotto, il bluson zippato, i bermuda con la coulisse, la t-shirt. «Ho sempre amato e collezionato tessuti e capi d’epoca, ma detesto tenerli in un angolo come trofei» racconta Walid, già direttore creativo di Joseph. Lo incontriamo a Parigi, nella piccola galleria-antro delle meraviglie, riempita all’inverosimile di oggetti, ninnoli, tessuti d’ogni sorta, che usa come showroom temporaneo. In un sistema paralizzato da merci senz’anima, prodotte in quantità obliterando ogni coinvolgimento emozionale, c’è qualcosa di romantico e profondamente etico - ma nulla affatto moralistico - nell’idea di creare il nuovo, a mano, da un inventivo recupero di materiali e pezzi antichi, nella scelta di dare una seconda possibilità estetica e d’uso a quanto scartato perché vecchio, consunto, carico dei segni del tempo.

Testarda, sofisticata e ruvida, la corrente alternativa del bricolage-ripescaggio percorre defilata buona parte degli ultimi trent’anni - ovvero lo stesso lasso di tempo nel quale la moda è diventata un’industria malefica proliferando scelleratamente sulla necessità del nuovo, o apparentemente tale, ogni sei mesi - almeno da quando nella Londra post punk degli anni Ottanta Christopher Nemeth prese a tagliare giacche e abiti usando sacchi della posta e il suo socio Judy Blame a crear gioielli assemblando in sensazionali grovigli qualsiasi cosa emergesse dal bidone della spazzatura, dai bottoni arrugginiti alle corde alle posate.

Martin Margiela, negli anni Novanta, elevò a statement neo-artigianale il concetto di recupero, seguito a stretto giro, cotè underground, da Xuli-Bet e da un’orda di neofiti della decostruzione. Negli anni Zero, E2 a Parigi e Vincenzo de Cotiis a Milano con Haute hanno esplorato il tema in chiave preziosa, muovendosi ai margini del fashion system per dar vita a una forma inedita di artigianato couture. Nella medesima nicchia si pone adesso Walid Damirji. È sofisticato ed elitario, ma anche consapevole che l’emozione è una spinta essenziale all’acquisto, oggi che si può trovare tutto, originale o copia, ad ogni angolo, in una escalation anaffettiva di prodotti generici. Per Walid l’unicità è qualità: è il segno che pervade ogni pezzo, rendendolo vivo, vero.

«Non lo chiamo riciclo ma up-cycle» spiega, con un gioco di parole pressoché intraducibile in italiano. «Trovo affascinante l’idea di trasformare ciò che ha già avuto una vita e renderlo nuovo, sorprendente. Il mio lavoro non segue uno schema fisso, ma è in genere la materia a generare la forma. Posso unire un pizzo prezioso al cotone, e poi tingere tutto in un colore inaspettato. Uso solo materiali di recupero: sete, crochet, passamaneria, persino pelliccia». Il risultato sono abiti privi di tempo che seducono, insieme, la vista e il tatto, artistici nel senso più concreto del termine, frutto di un processo di rigenerazione che è insieme sartoriale, etico, estetico. «Facciamo tutto a mano, con amore, a Londra» conclude Walid, con un gran sorriso. Da Tiziana Fausti a Browns, da Barneys a Maxfield, le migliori boutique si sono già accorte di lui.

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