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Pitti Uomo chiude con +8% di buyer. Le strategie delle aziende nel «turbine» valutario

Mantenere le antenne ben dritte, non solo per captare mercati promettenti ma anche per cogliere le gioie, ed evitare i dolori, legati alla fluttuazione dei cambi. Per l’industria italiana della moda, formata in larga parte da aziende piccole e piccolissime, e protagonista di un impegno straordinario per aumentare le vendite all’estero, s’impone un’ulteriore missione: fare lo slalom tra dollaro che si rafforza, euro e yen giapponese che si indeboliscono, rublo che si svaluta. E infatti tra gli stand del Pitti Uomo numero 88, che si chiude oggi a Firenze con una confortante presenza di compratori - +7-8% rispetto all’edizione del giugno scorso, sopra quota 20mila di cui 8mila stranieri, con un recupero anche dei buyer italiani – attenzione alle valute e formazione di listini “sostenibili” sono propositi che hanno preso il posto di “espansione in Cina” e “selezione della clientela tricolore”.

Vede rosa chi vende negli Stati Uniti, come il marchio napoletano di abbigliamento maschile d’alta gamma Isaia, che oltreoceano esporta il 60%: «Il rafforzamento del dollaro ci aiuta a livello consolidato visto che abbiamo una società americana – spiega Gianluca Isaia, amministratore delegato dell’azienda di famiglia che negli Usa esporta il 60%, e che la prossima settimana aprirà un monomarca a Los Angeles – ma il punto fondamentale è riuscire a utilizzare i vantaggi del cambio, reinvestendo per dare un servizio migliore ai clienti. È quel che abbiamo fatto in Russia, dove infatti non abbiamo perso fatturato». Isaia quest’anno prevede un’altra crescita a due cifre, +18% a 48 milioni di euro, e si prepara ad assumere “30-40 persone” nella nuova fabbrica in via di costruzione a Casalnuovo, alle porte di Napoli: sarà ingrandito il reparto camiceria e avviata la produzione interna di scarpe.

Il rafforzamento del dollaro spinge anche gli investimenti in partnership delle aziende italiane come Locman, produttore toscano di orologi (22 milioni di ricavi attesi quest’anno, per il 30% all’estero) che sta per aprire un secondo negozio a Milano e che progetta anche lo sbarco oltreoceano, a Miami e New York: «Il rafforzamento del dollaro è la chiave di volta per stimolare gli investimenti di partner locali», spiega l’azionista di maggioranza, Marco Mantovani.

Guarda agli Stati Uniti come mercato «su cui fare di più, ora che l’azienda è ripartita col piede giusto» Nicola Martini di Mason’s, 20 milioni di fatturato previsto quest’anno (per il 75% all’export) con una crescita del 20%, e un allargamento della collezione dallo sportswear al “lusso accessibile”. «Prima della crisi economica internazionale gli Stati Uniti erano per me un mercato fondamentale – aggiunge Martini – e ora che il cambio è favorevole vorrei che tornassero ad esserlo, accanto all’Europa».

Ma il rafforzamento del dollaro non ha un impatto positivo per tutti. «Per noi che compriamo in dollari, producendo in Cina e Bangladesh, questo livello di cambio crea non pochi problemi – spiega Lorenzo Nencini di Incom, licenziatario per l’Europa del marchio di casualwear americano ispirato al mondo del polo Us Polo Association – per superarli abbiamo lavorato con i nostri fornitori storici, cercando di condividere gli effetti del cambio, e riuscendo così a mantenere fermi i listini». Us Polo prevede 22 milioni di ricavi quest’anno, in leggera crescita sul 2014, col 50% di export e grandi aspettative dalla linea beachwear lanciata l’anno scorso.

Accanto agli Stati Uniti, gli altri “osservati speciali” delle aziende italiane di moda sono il Giappone e la Russia. «Ma l’unico modo per cavarsela è essere flessibili, tenere le antenne dritte e cercare di prevenire i problemi», dice Mario Stefano Maran, direttore commerciale di Pantaloni Torino- Pt01, il marchio di pantaloni di fascia alta che si è appena quotato all’Aim, 24 milioni di fatturato 2015 per il 65% all’export col Giappone come primo mercato estero (vale circa 5 milioni di euro). «In Russia abbiamo abbassato i listini e dato incentivi al nostro agente, e in questo modo siamo cresciuti anche in questa fase di crisi – aggiunge – in Giappone abbiamo fatto lo stesso, col risultato che prevediamo di crescere, così come negli Stati Uniti. Il segreto è modificare gli anelli della catena in funzione del mercato, capire come evolveranno i cambi e cercare di prevenire gli effetti».

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