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Al mare con Max Mara, romantiche con Blugirl. Scognamiglio oltre le mode, Moschino e Philipp Plein «eccessivi»


In una indimenticabile scena de “Il diavolo veste Prada”, Meryl Streep/Miranda Priestly volge uno sguardo di profondo disprezzo alla redattrice che, per il numero di primavera, suggerisce un servizio sui fiori. Nella moda la banalità equivale a una maledizione: è un passo falso da evitare con ogni mezzo. A partire dagli anni 90 è stata proprio una escalation alla ricerca dell'ispirazione singolare e balzana.

Eppure, si commettono più capitomboli a sforzarsi di cercare, a posteriori, concetti lambiccati e inesistenti – per una manciata di vestiti, nientemeno – che non a riconoscere l'inevitabilità di righe marinare, farfalle e solarità assortite in una collezione estiva. Anche perchè poi la moda intellettuale è appannaggio di un minuscolo drappello di outsider. Gli altri sono solo wannabe, pronti inconsapevolmente a coprirsi di ridicolo. A questo giro, però, qualcosa sembra cambiare. Stilisti e maison abbracciano finalmente con rinnovata onestà l'attività del far vestiti. Se una idea dietro c'è, va bene. Altrimenti, meglio non cercarla e portare in passerella abiti che rispondono a precise esigenze: di stile, di clientela, di stagione. A Milano, in questi giorni, si stanno così vedendo una miriade di collezioni estive dall'esprit, ci si passi il pleonasmo, gioiosamente estivo.

Da Max Mara, è un tripudio grafico di righe, disegni di ancore e stelle di ogni misura, di corde usate come coulisse e sovrapposizioni sghembe, in una collezione che, almeno in passerella e certo a causa di uno styling alquanto forzato, sembra portare il classicismo senza tempo della casa in territori di fresco giovanilismo. Certo, i cappotti double e i tailleur che di Max Mara sono il core business ci sono sempre, ma hanno una nuova nonchalance, una immediatezza energica. Se solo si riuscissero a evitare trovate facili quanto incoerenti come il trucco punk, il messaggio sarebbe più limpido.

Stormi di farfalle si posano su sete impalpabili da Blugirl, alternandosi alle grandi righe colorate carpite, racconta backstage l'inossidabile Anna Molinari, «dagli ombrelloni della mia amata Forte dei Marmi». Insomma, anche qui estate bella e buona, condita dell'insolente gioia di vivere che della linea, sorella giovane di Blumarine – intendendo per giovinezza una posizione mentale, non anagrafica – è diventata leitmotiv, condita a questo giro dall'ironia egocentrica dei bijoux e delle cinture che scandiscono il nome Anna a caratteri cubitali. La vulcanica stilista carpigiana, a latere, dice anche di essere alla ricerca di una nuova espressione di femminilità, e sceglie la gonna lunga come simbolo di una sensualità più consapevole e meno urlata. I fiori, altro topos inevitabile della bella stagione, sono motivo assai gettonato. Infatti, c'è romanticismo nell'aria. Alla meglio, è fosco, denso, per nulla zuccherino.

Come nel caso di Francesco Scognamiglio che, incurante di mode passeggere e tendenza da trenta secondi, continua una stagione dopo l'altra a lavorare su una idea di donna carnale e voluttuosa, cui offre abiti carichi di pathos eppure in qualche modo crudi, immediati. È il profilo tremulo dell'iris che adesso fa da filo conduttore, suggerendo forme vibranti e teatrali, a mezzo tra lingerie e vestimento pubblico, glamour cinematografico e complicazione rococó. Nessuna smanceria o delicata frivolezza da Philipp Plein, che ormai da qualche anno si è guadagnato a Milano lo scettro di rockettaro eccessivo e spregiudicato. I suoi show faraonici, un vero schiaffo alla miseria, sono un inno a tutto ciò che infrange la barriera del gusto, e questa nuova prova, tra valletti meccanici e robot con la chitarra, non fa eccezione.

«Nella moda di oggi esistono due scuole di pensiero: una pop vintage, una noir rock. Io sto nella seconda» spiega Ennio Capasa di Costume National, coerente come sempre ad una idea di edgy chic che prevede nero in abbondanza – un non colore che è insieme scelta estetica e ontologica – linee affilate e un atteggiamento tagliente e metropolitano. Da ultimo, però, si nota una nuova morbidezza, che smussa metaforicamente gli angoli pur mantenendo lo spirito puntuto e ribelle che è nel dna del marchio. Da Moschino,in fine, la banalità modaiola che avanza è elevata a vette di puro surrealismo: tema e svolgimento sono speculari in maniera assoluta. Jeremy Scott declina l'idea dei “lavori in corso” sul guardaroba borghese, trasfigurando con dettagli catarifrangenti, frange da car wash e fanali da automobile persino il tailleurino bon ton e l'abito da gran sera. La trovata diverte, perchè l'esecuzione è impeccabile, ma il gioco, alla lunga, rischia di essere lo stesso che Scott si è insediato. Come dar torto, peró? Repetita, si diceva a scuola, juvant.

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