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Intervista

Pier Luigi Loro Piana: «Il nostro metodo sta rivoluzionando la filiera del tessile in Cina»

Rita Fatiguso

Shanghai
Pier Luigi Loro Piana conserva intatta la passione per il suo lavoro di ricerca del cashmere perfetto, quello sotto i 14 micron. «Una sfida partita, in Cina, nel 2009 - spiega a MilanoUnica Shanghai l'imprenditore, che dopo l'acquisizione da parte di Lvmh è deputy chairman dell'azienda - con un progetto di ricerca focalizzato sull'area di Alashan (Inner Mongolia) che ha prodotto il primo lotto da 100 chilogrammi di cashmere dopo un ciclo operativo di ben tre anni». Ieri la consegna del premio agli allevatori più bravi nell'utilizzo del metodo Loro Piana.

Una fatica enorme. Cosa l'ha spinta a insistere in questo sforzo e a farne la punta di diamante del vostro cruciale mercato cinese?
La Cina è un Paese in cui ci vuole tempo per fare le cose. Non solo, devi resistere. La svolta sul metodo Loro Piana è stata possibile grazie a un accordo tra le università di Jilin e di Camerino e l'Enea, concentrata su come si poteva ottenere un tipo di cashmere che ci distinguesse dagli altri.
Il cashmere a quel punto stava diventando una commodity come le altre.
Infatti. Ci trovavamo di fronte a una continua discesa di prezzi e di qualità, qualcosa davvero inammissibile per la nostra azienda che ha fatto della qualità una vera e propria bandiera.

Cosa è successo, dopo?
Quella ricerca congiunta tra Cina e Italia è capitata a puntino. È diventata un metodo di lavoro. Non è possibile tollerare una politica che porta a produrre di più a minor prezzo. Quello che si incassa oggi si perde nel tempo e la perdita riguarda la qualità. Con un prodotto migliore, più costoso, possiamo invece – come sempre ha fatto la nostra azienda – guadagnare quote di mercato e recuperare nel tempo anche maggiori utili.

Questo è un problema del vecchio modello economico al quale la Cina sta cercando di ovviare, tra mille difficoltà.
Per mantenere alta la qualità Loro Piana bisognava che chi opera nei luoghi di produzione capisse cosa si richiede a valle, cioè noi, che ci occupiamo dell'intera filiera. Bisognava aiutare queste persone dedite alla cura delle capre da cashmere a diventare, da pastori, allevatori. Lunghi anni di lavoro per noi, condivisione del metodo e dei problemi, ma pian piano ci hanno seguiti. Anche le autorità del posto hanno colto le opportunità di cambiamento.

Loro Piana ha fatto un simile esperimento in Perù con la vicuna.
Esatto. Nel presupposto che il cashmere non deve essere solo e soltanto una commodity, è necessario creare un rapporto con il territorio: abbiamo puntato alla zona di Alashan che era quella del nostro approvvigionamento di elezione in Cina, dove siamo presenti da metà degli anni 80. Dal 1990 il nostro laboratorio è a Pechino. È lì che si sottopongono a controlli i campioni, e si verifica la bontà del prodotto.

Per la Cina questo metodo è davvero rivoluzionario, appassionare le nuove generazioni al settore primario cozza con la necessità di favorire l'urbanizzazione tanto sbandierata dai vertici di Pechino.
Questi allevatori rappresentano una ricchezza da tutelare. Vogliamo che i loro figli vengano da noi, a trovarci in azienda, che questa realtà di allevamento spezzettata – diversa dalla situazione australiana in cui c'è un allevatore per migliaia di pecore - possa essere condotta più razionalmente per effetto dell'ottimizzazione della programmazione e della produzione. Ci abbiamo messo un decennio a convincere i pastori a separare il vello delle caprette da quello delle capre adulte.

I quattro allevatori dell'Inner Mongolia che avete appena premiato faranno scuola?
Direi di sì. Sono sicuro che partirà una sorta di tam tam tra di loro che innescherà un processo virtuoso. I premiati sono stati scelti su decine di candidati, ma appena il metodo diventerà più diffuso sarà un successo anche per il territorio e l'ambiente.

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