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Alessandro Michele: «A Shanghai racconto le declinazioni del contemporaneo secondo Gucci»

«Non so cosa è nuovo. Lavoro di pancia e d'istinto, cercando sempre di divertirmi», racconta Alessandro Michele, il direttore creativo che nel giro di pochi mesi ha rivitalizzato, e invero radicalmente rinnovato, il lessico di Gucci, catturando e soddisfacendo la fame atavica di nuovo che è insieme motore principale e tarlo divorante del fashion system. Il sano sprezzo per le regole, unito all'allergia naturale verso la disperazione della novità che altrove produce così tante forzature, è la sua arma vincente.

Il tempo della moda, del resto, tanto più lo si afferra, quanto più lo si ignora, perché la mancanza di sforzo equivale alla leggerezza penetrante cara a Italo Calvino. Alessandro Michele parla in pubblico con la spontaneità che a tratti diventa irresistibile goffaggine - un atteggiamento inusuale che lo ascrive a buon diritto nella schiera dei leader tra i creatori che da ultimo stanno destabilizzando l'establishment, alieni dal protagonismo tronfio dei predecessori - nell'inedito ruolo di curatore.

Siamo a Shanghai, negli spazi del Minsheng Art Museum, dove è stata appena inaugurata la mostra “No Longer/ Not Yet”, della quale Michele è co-ideatore insieme a Katie Grand, supestylist e direttore di “Love”, semestrale di moda dall'iconografia stratificata, sempre a mezzo tra pop, trash e alto concetto. «Questa non è una esposizione d'arte contemporanea e non ne ha nemmeno la pretesa - racconta, schermendosi -. Ho semplicemente voluto creare un cortocircuito tra la mia visione e le visioni di una serie di artisti il cui linguaggio e il cui sguardo mi interessano». Il brief dato a tutti consiste nella domanda “Cosa è il contemporaneo?”, così come sintetizzato dal filosofo Giorgio Agamben nel saggio dal medesimo titolo. Compito non facile, quanto nodale: definire il momento vuol dire infatti catturare l'inafferabile, bloccare ciò che non è più ma che davvero non è ancora. Vuol dire soprattutto lavorare con l'effimero e con il tempo, entità fantasmatiche e pervasive.

Le risposte, efficaci e poetiche, sono le più varie: si va dalla scultura di Rachel Feinstein, precaria come un cumulo di ritagli di carta, assertiva come l'inesorabile ticchettio delle lancette di un orologio, alla crudezza pittorica degli scatti di Nigel Shafran, che del backstage della sfilata coglie non il glamour, ma la temporalità parallela del “making of”. I quadri di Unkilled Worker, al secolo Helen Downie, giocano con il doppio registo del tratto naif e del ritratto classico, proponendosi come un repertorio in divenire di tipi della Gucci tribe, mentre Li Shurui dipinge la fuggevolezza della luce e Cao Fei cattura il cambiamento incessante del paesaggio urbano cinese nel movimento ossessivo di un aspirapolvere automatizzato.

Sferzanti, come sempre, gli slogan corrosivi di Jenny Holzer, e perfetto il setting urbano per gli scatti ingigantiti di Glen Luchford. Ma è l'istallazione concepita dallo stesso Alessandro Michele che in qualche modo riassume il senso profondo di tutta l'operazione: uno ieratico ritratto elisabettiano circondato da una aureola di neon pop, appeso su una parete fiorata dentro un cubo specchiato che a sua volta scompare dentro una stanza dall'intricato pattern fitomorfo.

Un gioco di scatole e rimandi che produce un cortocircuito insieme lieve e potente, capace di avvolgere e irretire dentro lo spettatore. «Le cose belle si possono creare solo lavorando con persone belle», spiega Michele. La forza di questa esposizione unica è proprio nella sinfonia naturale di voci spiccatamente singolari, e poi nell'elaborazione di un linguaggio espositivo emozionante quanto essenziale. Invero, nuovo.

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