
Milano indossa il vestito della festa e si prepara ad accogliere a braccia aperte i compratori e i giornalisti che seguiranno le sfilate maschili dell'autunno-inverno 2016-17. Palazzi antichi e location contemporanee ospiteranno collezioni che si spera facciano breccia su buyer, media e fashion blogger, per poi “colpire” il portafoglio dei consumatori di tutto il mondo.
I segnali del mercato non sono univoci, anche se è giusto difendere a spada tratta e valorizzare uno dei settori più importanti dell'economia italiana, con un export che nel 2015 sfiora i 48 miliardi e un surplus di 17. Il mondo sta cambiando ed è colpito, ormai quotidianamente, da turbolenze di ogni genere che non possono non influire sui comportamenti di acquisto dei potenziali clienti dell'industria italiana. La cui leadership - è bene ricordarlo a chi accusa il settore di frivolezza - è indiscussa e attestata dalle statistiche sul commercio internazionale, soprattutto quando si parla di scarpe, pelletteria, occhiali e gioielleria. Meno sugli abiti, dove il fast fashion sta spazzando via la competizione, e sul tessile, segmento in cui il dominio delle piccole imprese ha provocato difficoltà a catena nel corso degli anni più bui. Questo il quadro generale, sul quale si innesta un dato molto negativo relativo alla produzione industriale in novembre, in calo del 5,1%, secondo l'Istat, rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. È la flessione più pesante fra i settori industriali trainanti nel nostro Paese.
Ma, purtroppo, c'è di peggio. Chi pensa che il rischio-Cina arrivi dal rallentamento della crescita, dall'ottovolante borsistico o dalle fluttuazioni valutarie, non ha ancora bene compreso la portata di un'opzione che è ormai dietro l'angolo, evidenziata dall'editoriale “I dubbi dell'Europa e la tagliola cinese”, pubblicato sul Sole 24 Ore del 14 gennaio: l'imminente arrivo dello status di economia di mercato che, secondo Pechino, spetterebbe alla Cina dal prossimo dicembre a seguito del Trattato di adesione alla Wto firmato a Doha nel lontano 2001.
Grazie a questa norma sarebbe la stessa Repubblica popolare a “monitorare” i prezzi alla produzione dei beni da esportare, senza alcuna verifica da parte di terzi, il che - secondo i più preoccupati a Bruxelles - aprirebbe di fatto a rischi di dumping incontrollato. Più probabile in settori come l'acciaio, tanto per citare quello dimensionalmente più significativo, ma da non escludere anche per tutto il sistema moda. Nelle previsioni più pessimistiche, le dogane sarebbero inondate di prodotti made in China a prezzi iper competitivi, in grado di distruggere le aziende italiane che presidiano le fasce medio-bassa e media del mercato. Jeans, giacconi, maglie, T-shirt, scarpe e borse andrebbero a rinfoltire l'offerta sulle bancarelle degli ambulanti ma, soprattutto, nella grande distribuzione organizzata e nelle catene che, nel corso degli ultimi anni, hanno preso il sopravvento sui negozi tradizionali. E non è neppure escluso lo sbarco in grande stile di nuovi competitor cinesi sul mercato europeo, forti di maxi volumi produttivi a costi imparagonabili e di cospicue risorse finanziarie.
A questo punto, la domanda dei non addetti ai lavori potrebbe essere semplice: ma noi italiani non produciamo solo lusso, lusso esclusivo o accessibile, ma comunque lusso? La risposta è che, sotto questa spada di Damocle, con lungimiranza, sarebbe opportuno definire l'identikit di chi presidia un segmento e chi un altro, ridisegnando la “piramide” del sistema, senza prendere per il naso i consumatori con il “finto” made in Italy. Il timore è che anche brand con una precisa identità e notorietà internazionali finiscano stritolati da una possibile invasione cinese a prezzi stracciati, magari tramite formule differenziate di “imitazione” di loghi e prodotti.
La speranza, però, è che l'applicazione dello status di economia di mercato non sia affatto così automatica come pretende Pechino. Ma per i produttori italiani - già abbandonati a se stessi dagli importatori del Nord Europa sulla questione del “made in” obbligatorio - sarebbe oltremodo sbagliato disinteressarsi del problema. Come purtroppo si fece con il progressivo smantellamento dell'Accordo Multifibre che, a regime dopo 10 anni il primo gennaio 2005, provocò un terremoto nel tessile-abbigliamento.
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