
«Caro diCaprio, i suoi sforzi per vendere diamanti sintetici come sostituti “etici” dei diamanti naturali stanno mettendo a rischio la vita di milioni di lavoratori in Africa»: così Martin Rapaport, uno dei personaggi chiave del business globale dei diamanti con il suo Rapaport Group, con una lettera indirizzata al divo di Hollywood che lo scorso anno ha investito in Diamond Foundry, azienda californiana che produce diamanti in laboratorio, ha contribuito ad alimentare il sempre più acceso dibattito fra sostenitori e detrattori dei diamanti sintetici.
Una produzione, quest’ultima, sempre più florida, cresciuta negli ultimi anni al ritmo del 300%, e che sta cambiando il mercato dei diamanti: a fare il punto su questo segmento è stato un interessante seminario tenuto nei giorni di Vicenzaoro Dubai dalla World Diamond Mark Foundation in collaborazione con la Hrd di Anversa, azienda specializzata nella certificazione delle gemme. Lasciando sospeso il giudizio sulla maggiore sostenibilità ed eticità delle gemme naturali, c’è un altro tema che sta attraversando e minacciando la gioielleria globale, vale a dire la diffusa tendenza a nascondere la vera origine di un diamante: un silenzio che non solo può “drogare” il sistema dei prezzi delle gemme, poiché un carato sintetico è più economico di uno naturale, in media del 35%, ma anche infrangere la fiducia della catena aziende produttrici–rivenditori-clienti.
Diamanti naturali e sintetici, infatti, hanno identiche caratteristiche fisiche e chimiche, e sono impossibili da distinguere se non attraverso sofisticati e costosi macchinari, che ne esaminano fluorescenza e fosforescenza, la presenza di boro e nitrogeno, la disposizione dei cristalli. Solo i big, non certo i piccoli negozi, oggi possono permettersi macchinari, come la Melee Screening messa a punto da de Beers che può analizzare con uno spettrometro anche 360 pietre all'ora.
Anche se la caccia “alchemica” al diamante artificiale iniziò già nel Settecento, solo negli anni Settanta General Electric creò e mise in commercio le prime pietre di laboratorio. Oggi i metodi seguiti, soprattutto in Cina, dove si stima esistano già 10mila aziende attive, sono essenzialmente due: il metodo HpHt (high pressure high temperature), che ricrea le condizioni della natura, e il più recente Cvd (chemical vapour deposition), basato sulla deposizione di gas idrocarburi su un substrato, efficiente ma anche molto più costoso.
La sola differenza fra le gemme naturali e quelle artificiali è che se le prime impiegano un miliardo di anni a formarsi, anche a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo, le altre nascono in laboratorio e nel giro di tre giorni. Dunque, le pietre saranno anche identiche, ma la loro portata emozionale, un fattore determinante per il loro acquisto, è molto diversa. Non solo: il rischio di pagare una pietra sintetica come una naturale è dietro l’angolo, tanto più che il prezzo dei sintetici tende a scendere del 50% ogni 18-24 mesi, visto anche l’aumento esponenziale della loro produzione. Oggi sono ancora una nicchia con i loro 350mila carati l’anno, contro i 135 milioni di carati estratti dalle miniere, ma secondo stime del Gem and Jewellery Export Promotion Council indiano, i sintetici raggiungeranno gli 1,5 milioni di carati già nel 2020. La soluzione? Nuovi sistemi di certificazione, tecnologie di riconoscimento più economiche. Onestà diffusa. Un principio che vale in miniera come in laboratorio.
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