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Il maschio in frantumi (per scelta) manda in soffitta il look azzimato…

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Pitti uomo 90

Il maschio in frantumi (per scelta) manda in soffitta il look azzimato e ipersartoriale

Lucky Numb3r5 - numeri fortunati - con le cifre a sostituire un paio di vocali, come usava negli anni Novanta della grafica decostruita di David Carson, è il tema dell'edizione numero 90 di Pitti Uomo, al via oggi a Firenze in Fortezza da Basso con innumerevoli propaggini, in forma di show e performance, sparse per luoghi topici della città. Numeri scelti, a detta del comunicato ufficiale, per le loro qualità estetiche, grafiche e simboliche, nella moda e oltre la moda.

Numeri che, a giudicare dalla varietà stordente dell'offerta della fiera - quest'anno, in aggiunta al classico sartoriale, allo sportswear e agli infiniti incroci e ibridazioni delle due categorie da sempre in mostra tra i padiglioni ci sono il neorealismo sovietico di Gosha Rubchinskiy e il grandguignol terrone di Fausto Puglisi, il lirismo essenziale di Lucio Vanotti e il giovanilismo sghembo di Raf Simons, senza dimenticare la nonchalance jap di Visvim - indicano il moltiplicarsi esponenziale di possibilità nella moda maschile, non dissimile dalla pioggia numerologica in Matrix. La rappresentazione della mascolinità attraverso lo stile mai come oggi è in transito e ridefinizione permanenti.

I numeri non capitano mai a caso: come la malasorte invocata dagli Skiantos, ci vedono benissimo. Il 90 tondo e inesorabile di questa edizione di Pitti, identico al numero che nella smorfia napoletana sta per “paura”, par proprio condensare la strizza e lo spiazzamento prodotti dalla frantumazione in atto. C'è di che spalancar le fauci e ululare come l'emoji ispirato a Munch quando si parla di mascolinità, sospinti nel buio siderale dell'ignoto, caotico e senza appigli.

Certo, il maschio in frantumi di adesso è in larga parte citazione e remix del passato - dal dandy d'antan al raver dell'altro ieri includendo nel novero il bambolo transgender alla Bowie/Prince/New York Dolls - ma è come se i pezzi fossero stati scaraventati in un acceleratore di particelle che sputa fuori collage di immagini a ritmi forsennati, distruggendo senza sosta per ricostruire e poi distruggere di nuovo. Afferrare il senso di quanto sta succedendo è impresa vanificata dalla parcellizzazione infinitesimale che è uno dei risultati della cultura e socialità digitali. Certo è che, a seguito di un movimento di riappropriazione virile della vanità iniziato nei recessi degli anni Ottanta, la figura del macho che non deve chiedere mai, tutto aplomb e testosterone, è diventata una macchietta.

Di quella figura ipertrofica, anzi, si è appropriata tout court la cultura omosessuale, rovesciandone proprio il significato. Ora che l'uomo non ha più paura di mostrarsi in pubblico per il vanesio che è, ora che il pansessualismo ha definitivamente affermato l'insufficienza dei vecchi canoni, perché a dare un sesso ai vestiti è il modo in cui li si porta, non la forma che essi hanno - per cui, con Kurt Cobain, anche la vestaglietta a fiori è perfetta su di lui - tutto è lecito. Che vuol anche dire, paradossalmente, che nulla lo è, perché l'eccesso di possibilità è in definitiva l'annullamento delle stesse.

La questione è ingarbugliata. La scena della moda pullula di visioni che sintetizzano la confusione dei tempi con oscillazioni inesorabili. Adesso, ad esempio, soffiano venti taglienti di nouveau realisme che mandano momentaneamente al confino l'uomo azzimato e ipersartoriale di cui proprio Pitti è stato bastione, sostituendolo con figure underground e studiatamente trasandate. Non che la sartorialità, da sempre espressione di virilità solida, stia scomparendo, anzi il contrario. Si è invertita di segno, però, imboccando una via traversa, come proposto da una generazione di creatori, poco più che ventenni, presi ad esplorare il coté destabilizzante del tailoring, del quale celebrano la decadenza festaiola. Anche l'idea di classico è sovvertita, svuotata: non più sinonimo di giacca e cravatta, il classico nel presente fluido è una idea di semplicità pensosa - senza tempo, senza orpelli e soprattutto senza sesso, come proposto da Lucio Vanotti ricordando il miglior Armani. Ed è qui che il cerchio si chiude: nell'avvicinamento di maschile e femminile, che eccita e spaventa, polverizzando dogmi.

Come Sisifo, torniamo quindi al punto di partenza: oggi c'è un numero infinito di modi di rappresentarsi come maschio, ma a ben guardare si tratta spesso di messe in scena labili che dietro la celebrazione dell'individuo nascondono omologazione e riciclo iconografico. È un problema sociale, o di moda che ha smesso di parlare alla gente, riducendo anche questa analisi ad un pour parler per addetti ai lavori? La mascolinità, in fondo, dovrebbe semplicemente essere il coraggio di rappresentarsi con autenticità immaginifica, perché la realtà è sempre il prodotto dell'immaginazione. Eppure, non c'è nulla di più difficile, e non c'è numero che venga in soccorso, sicché la quaestio rimane aperta.

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