Moda24

Eco-safari in Botswana: diario di esplorazione (e meditazione)…

  • Abbonati
  • Accedi
LUXURY

Eco-safari in Botswana: diario di esplorazione (e meditazione) dal Delta dell’Okavango al deserto del Makgadikgadi

(Foto: Maurizio Pancotti)
(Foto: Maurizio Pancotti)

Un profumo intenso di salvia selvatica riempie le narici. Un respiro, e la riserva il Botswana ti ha conquistato. Dopo trenta ore di voli, invece di infilarti nella tua tenda a riposare, inizi subito il safari. È un po’ come tuffarsi da dieci metri: chiudi gli occhi e ti butti. Sono le 4 del pomeriggio nella Riserva di Selinda, sul Delta dell’Okavango, il fiume che svanisce nel deserto. Qui comincia l’itinerario organizzato da Il Viaggio (info@ilviaggio.biz, tel. +39 02 67 390 001), tour operator specializzato in viaggi in tutta l’Africa. La Land Cruiser balla sulle strade dissestate, e ti sveglia.

Un elefante sbuca tra le fronde e comincia a correre, e per fortuna non viene verso di noi. Però ci guarda con quegli occhioni rugosi e le orecchie aperte a ventaglio. È spaventosamente bello. Si gira e sparisce di nuovo nel verde. «Da qualche parte ci deve essere anche una leonessa», dice Vic, la nostra guida, dopo aver sentito un collega alla radio. Ed eccola, con i leoncini che giocano intorno. È di spalle, e nemmeno si volta al rombo del motore. Ci avviciniamo e sentiamo uno scricchiolio di ossa, un rumore di strappo forte. Sta sbranando un impala. Dopo un po’ si volta con il muso sporco di sangue, controlla i piccoli, e torna a sbafare la preda. La scena è cruenta, è vero. Ma è la vita nel bush. Difficile staccare gli occhi dal quadretto famigliare, e difficile non calcolare che se scendessi dall’auto, faresti la fine dell’impala. Solo tre passi, lo devi ricordare sempre, solo tre passi fatali ti separano dal pericolo. Se impari a tenere la giusta distanza, tutto procede per il meglio. Altrimenti sono guai. È la legge della natura, più forte, severa e certa di qualunque altra legge.

Sulla via dell’Explorers Camp di Great Plains è quasi buio; il sole, una palla di fuoco rosso, è stato inghiottito dall’orizzonte. All’arrivo ci accoglie Willem, il manager del campo, un olandese che avrà certamente una storia da raccontare, una carriera brillante in qualche City interrotta per assecondare la fatale attrazione per l’Africa. Tutti hanno una storia, un passato denso, scelte difficili alle spalle. Almeno così sembrano ad ascoltarle intorno al falò. A migliaia di chilometri dalle nostre abitudini, certezze, timidezze, nasce una complicità consolidata da una passione comune: essere lì. Il telefono non prende, il wifi non c’è. Si può solo parlare.

La sveglia è alle 5 del mattino: un caffè, due biscotti e si parte per la savana. Le guide si scambiano informazioni via radio. C’è una leonessa a caccia. La seguiamo per un po’ poi ci distraiamo con un leopardo statuario su un albero. Sta su un ramo, in alto, a controllare il territorio mentre il suo cucciolo si allena ad arrampicarsi sul tronco. Quando la leonessa si avvicina, scende e il cucciolo sparisce tra le spighe di un campo accanto. Sempre immobile, controlla la scena, mentre la leonessa cattura, uccide e sbrana un piccolo facocero in meno di mezz’ora.

L’orientamento fotografico è nel dna di Great Plains e dei suoi proprietari, i documentaristi Beverly e Dereck Joubert e, per il 20% la National Geographic Society. Nel campo di Zarafa, il relais chateaux del gruppo dove ci spostiamo il giorno dopo, le tende-suite hanno addirittura in dotazione una Canon e un cannocchiale professionale per osservare la laguna di fronte, dove stanziano decine di ippopotami e si fermano a bere centinaia di elefanti. Non puoi staccare gli occhi da quella maremma verde, rosa, viola, notturna, che è il palcoscenico esclusivo del campo. Al tramonto gli ospiti si riuniscono per l’aperitivo intorno al braciere fiammeggiante, le conversazioni che fanno il giro del mondo entro la fine della cena gourmet preparata da chef Pierre.

Purtroppo bisogna ripartire. “Purtroppo”, capita di dirlo spesso, ogni volta che finisce una tappa. È la nostalgia istantanea per le cose che durano poco. Succede quando pensi di non aver avuto abbastanza tempo per guardare i documentari dei Joubert, di sfogliare i libri, di scoprire i nomi degli uccelli e di tutti i piccoli abitanti di quell’ambiente protetto. Ci sono i big five, ma anche i little five, e persino gli ugly five, rispettivamente i grandi della savana, i più piccoli e i più brutti, che finirai per amare tanto quanto i maestosi felini: gli gnu, le iene, i suricati, gli insetti laboriosi...

In Cessna raggiungiamo un campo mobile più a nord, sempre sul Delta dell’Okavango. Ci aspetta Ralph, un africano biondo con gli occhi verdi vestito come Indiana Jones, avventuroso come un attore di Hollywood e colto come un professore di Oxford. È un privilegio visitare il Botswana con Ralph che sa tutto del suo territorio e lo racconta come un universo perfetto al quale, alla fine del discorso, desideri solo appartenere. All’arrivo al campo, lo staff ha già montato le tende con bagno, letto in ferro battuto e lenzuola soffici come quelle di un cinque stelle. Hanno montato anche il salotto, con il bar e i libri sull’Africa, acceso il falò e preparato la tavola con flute e piatti di porcellana. Dalle cucine arrivano profumi allettanti di intingoli, pane fresco e carne arrosto.

La sveglia è sempre alle 5, ma la giornata comincia con una ricca colazione. Poi a metà mattina, dopo aver osservato una muta di licaoni a caccia e al gioco, percorso le strade di David Livingstone, visitato il monumentale Baobab di Chapman, caduto lo scorso gennaio, ci si ferma in una radura. Sono le 11, e avvertiamo un languorino, subito rincuorato da un delizioso profumino: i ragazzi di Ralph hanno allestito una tavolata, e una cucina che serve caffè, tè, succhi, uova strapazzate e un tortino alla cannella che mai avresti sperato di trovare lì. Gli ospiti non devono occuparsi di nulla fuorché divertirsi e godersi il buon cibo e la bellezza del paesaggio. Ogni giorno si acquisisce un briciolo di confidenza in più, si capisce fin dove ci si può spingere, e che l’indipendenza è sempre un traguardo lontano. Bisogna stare attenti a tutto e c’è sempre bisogno di un interprete affidabile. Ralph è uno dei migliori che possano capitare, coi suoi studi in Sudafrica e negli Usa e i suoi 55 anni di vita nell’Africa con più leggi di buonsenso che scritte. E crea sempre un’occasione per farti passare da spettatore a protagonista di quella meraviglia.

Mentre si naviga sul Delta, tra cespugli altissimi che nascondono ippopotami, elefanti e ogni sorta di animali, trova un posticino dove le acque sono così basse che ci si cammina: sedie in acqua, insalatona, bicchierino di bianco, e caffè. Poi tutti a far la lotta a palle di fango e alghe. Si sentono solo risate. Anche perché non c’è nessun altro in giro. E i coccodrilli? Nell’Okavango ci sono, ma non in quel punto.

La navigazione riprende fino al campo, con un’altra pausa verso il tramonto, per brindisi e selfie davanti all’innocuo incendio del cielo che succede ogni sera. Su un’isoletta del Delta, le zanzariere sono già montate per la notte. Come al solito, lo staff ci precede - in camion, in barca, in fuoristrada - e invariabilmente all’arrivo è tutto pronto: il falò acceso, la zuppa sul fuoco, la tavola apparecchiata.

Le zanzariere sono vicine una all’altra, e la vicinanza rassicura. E la sera sei così stanco, che crolli e con te ogni residuo di paura. All’alba ti svegli con un concerto ininterrotto di uccelli e animali, come le musiche infinite di Eric Satie, un sottofondo esistenziale, che aggiunge una quarta spessa dimensione allo spazio. Su quell’isoletta di poche centinaia di metri quadrati, c’è tutto quel che serve. Piante ricche di proteine, radici per fare la farina, basilico selvatico buono per cucinare, fumare e guarire il raffreddore, funghi per accendere il fuoco, gelsomino per profumare il giaciglio, bacche di amarula per il liquore. Tuttavia nessuno ci vive e l’ecosistema è intatto.

Si riprendono la barca, la jeep e il piccolo aereo per raggiungere il deserto del Makgadikgadi, che significa il “grande grande nulla”. È una landa vasta e tanto secca che la terra è crepata. Pare deserta, ma è di una vitalità straordinaria, che percepisci solo se la guardi sempre più da vicino.

A Jack’s Camp è l’ora del tè. Sembra il campo di Robin Hood, con le tende verdi scuro merlate, come castelli di stoffa. Lo spazio è fluido, non ci sono muri e barriere tra dentro e fuori. E c’è anche un museo nazionale di Storia Naturale, dove sono esposti i resti di animali e gli strumenti usati dai popoli della zona. Tra le teche, sono disposti il biliardo, un cassettone con le foto della famiglia Bousfield, e del capostipite di quella impresa ecoturistica di cui Ralph è ora l’erede di sua moglie, i quali hanno fatto evolvere il progetto e con Uncharted Africa hanno realizzato sei campi in un’area sconfinata, che tutelano come il vero, unico prezioso bene di famiglia. Quella terra che dà loro da vivere, e soprattutto, ben conservata, amata e tutelata, dà da vivere a chi la abita da sempre, dai piccoli scarabei, ai suricati, alle centinaia di migliaia di zebre e gnu che ogni anno la attraversano per emigrare in cerca d’acqua.

Purtroppo gli allevatori del Botswana alzano recinti per proteggere le loro mandrie dai leoni, ma così facendo hanno sbarrato i corridoi migratori, disorientando gli animali. È questo uno dei crucci che impensierisce Ralph. Ma solo fino a un certo punto. Perché anche lui, come i saggi, crede che la natura con la collaborazione degli uomini volenterosi troverà sempre un escamotage di sopravvivenza.

Nella tenda del tè è allestita una merenda sontuosa - tartine deliziose, dolcetti, frutta fresca, acqua e limone dissetante – prima di riprendere la strada per San Camp, solo 7 tende, stupende. C’è l’essenziale, ma disposto con un tale buon gusto che ti senti un principe fortunato, circondato solo di bellezza. Ogni tenda è a 10 minuti dalla zona comune, per godere di quel grande grande nulla. Ma se vuoi fare un bagno in piscina, bere un whisky, sederti a una cena sontuosa, è tutto lì, a due passi. Stai bene, e ti rendi conto che in non hai sentito un secondo la mancanza del tuo cellulare, della corrente elettrica, delle docce che durano ore, del frigorifero gelato. Basta poco di tutto e in condivisione. E stai benissimo. Non per dire che il safari è necessariamente la vita che tutti dovremmo fare, ma è una pausa di riflessione nella vita che conduciamo.

© Riproduzione riservata