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Stone Island chiude il 2016 con ricavi in crescita del 20%. …

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Stone Island chiude il 2016 con ricavi in crescita del 20%. L’export a quota 65%

Il negozio Stone Island di New York.  Due capi della P-E 2017  realizzati con la tecnica «hand corrosion»
Il negozio Stone Island di New York. Due capi della P-E 2017 realizzati con la tecnica «hand corrosion»

Stone Island sta per chiudere l’anno più felice della sua storia: il presidente Carlo Rivetti parla di crescita a doppia cifra di fatturato e redditività, grande successo negli Stati Uniti – il mercato più difficile per un marchio di casualwear – aumento delle vendite persino in Italia e brand awareness su internet sempre maggiore, tanto da scatenare forme di collezionismo e siti specializzati in capi vintage, arrivati a costare oltre dieci volte il prezzo originario.

«Se mi guardo da fuori, facendo una sorta di esercizio di meditazione economico-finanziaria, capisco meglio come sia stato possibile aver raggiunto questi risultati in un anno così difficile – racconta Rivetti –. Chiuderemo il 2016 a 105 milioni, pari a un +20% sul 2015 e +100% negli ultimi cinque anni. Gli ordini per la collezione della primavera-estate 2017, già tutti in casa, sono in salita del 30%. L’ebitda è arrivato a 18 milioni, il 35% in più rispetto al 2015. Non ho mai cercato di anticipare il mercato, né di rincorrerlo e questi dati sono sorprendenti anche per me. Ho sempre avuto però le idee molto chiare su tante altre cose e ora raccogliamo i frutti di questa coerenza e del lavoro di squadra».

Pensare che solo tre anni fa si era “rumoreggiato” della vendita di Stone Island a un colosso americano: «Non ho mai smentito le trattative, è stata in ogni caso un’esperienza – precisa Rivetti –. Ma ho capito che possiamo e dobbiamo restare indipendenti. Con un socio esterno Stone Island diventerebbe, inevitabilmente, qualcos’altro, che quasi certamente non mi piacerebbe più».

Rivetti ha sempre posticipato (ad infinitum, verrebbe da dire) lo sbarco in Cina, ma l’export è comunque arrivato al 65% grazie all’Europa e agli Stati Uniti, dove nel 2016 è stato aperto il negozio di New York e a breve verrà ingrandito quello di Los Angeles.

«La distribuzione wholesale è sempre più selezionata, anche perché ormai abbiamo 20 negozi diretti nel mondo, nove dei quali aperti nell’ultimo anno e mezzo. L’e-commerce vale il 6% del fatturato e non vogliamo forzarne la crescita . Lo stesso vale per il bambino. Dobbiamo restare concentrati sui capi spalla, scegliendo con cura le collaborazioni. Con Supreme e Nike è stato un successo, ma non si può riproporre sempre la stessa formula». Nelle collezioni c’è anche la maglieria, il denim, persino le sneaker. «Ma la storia che raccontiamo e che tanto sta affascinando gli americani riguarda la ricerca sui tessuti, la voglia di far convivere tecnologia e stile, gusto italiano e versatilità d’uso, mantenendo il giusto rapporto qualità-prezzo. Positivo pure il dato sulle stagioni: estivo e invernale hanno quasi lo stesso peso, un equilibrio difficile per un marchio famoso per giacche e giacconi antifreddo e antivento».

L’unica cosa che preoccupa Rivetti nel medio termine è la capacità produttiva: «Siamo passati da 1.075.000 capi del 2015 a 1.355.000 e siamo quasi al limite delle attuali strutture. Ma è bello avere problemi di questo tipo».

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