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Le 400 best practice «verdi» dal tessuto alla vendita

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Le 400 best practice «verdi» dal tessuto alla vendita

Utilizzare materiali riciclati è un passo avanti, ma non può essere la soluzione definitiva quando si parla di un approccio sostenibile alla moda. Le aziende devono creare prodotti più durevoli, che abbiano l’impatto più ridotto possibile sull’ambiente. E i consumatori devono acquistare i capi e gli accessori con l’intento di prendersene cura, evitando di spostare immediatamente l’attenzione sullo shopping del giorno dopo. Potrebbe essere sintetizzata in questo modo la premessa che ha portato Greenpeace a stilare il report “Fashion at the crossroads” che attraverso 400 best practice individuate nell’intero settore, dal lusso al fast fashion, cerca di suggerire alternative sostenibili al modello industriale attuale.

La moda, secondo l’associazione, si trova oggi a un bivio: se, infatti, il tema della sostenibilità viene percepito come un’urgenza - anche sotto la spinta dei consumatori sempre più responsabili, Millennials in testa - le vie percorse dalle aziende della moda per ridurre il proprio impatto negativo sull’ambiente potrebbero non essere quelle più efficaci sul lungo periodo.In particolare, Greenpeace evidenzia come il mito dell’economia circolare, che impiega tessuti riciclati, non rappresenti un limite concreto al consumo eccessivo, una delle cause primarie del’inquinamento in generale e, in particolare, di quello legato al sistema moda.

«Il nostro timore è che tutto questo parlare di circolarità sia un po’ pericoloso- spiega Chiara Campione, senior corporate strategist di Greenpeace Italia -. L’obiettivo delle aziende di moda deve essere quello di eliminare le sostanze dannose per l’ambiente e non di riciclarle continuamente andando ad aumentare una produzione già troppo elevata».

Secondo il Pulse Report 2017, entro il 2030 il consumo mondiale di vestiti dovrebbe salire del 63% arrivando a 102 milioni di tonnellate. Non è tutto: l’industria globale della moda prevede, entro quella data, di raddoppiare la quantità di poliestere riciclato impiegato, arrivando a 76 milioni di tonnellate. «Questa “chimera” dei prodotti di origine riciclata al 100% rischia di diventare un alibi per i consumatori che continuano a comprare più del dovuto, pensando però di non avere impatto sull’ambiente», continua Campione.

Da qui l’idea di fornire una serie di modelli sostenibili che vengono già applicati nelle aziende, specialmente in quelle di piccola e media dimensione: «Alcune riguardano il design del prodotto, che deve sostenere un ciclo di vita più lungo, può essere creato con materiali sostenibili o può essere interamente riciclabile; altre i modelli di business che rendono i prodotti più durevoli sia dal punto di vista fisico sia emozionale e invitano a ridurre i consumi». Gli esempi concreti sono tanti: dall’americana Levi’s i cui jeans sono fatti per essere “rattoppati” e quindi utilizzati a lungo, al gruppo Miroglio, le cui tecniche di stampa digitale riducono in maniera sensibile i consumi di acqua nella produzione tessile. E, ancora, piccole realtà come Rentez-vous, che “affitta” i vestiti online, e Orange Fiber, start up siciliana che crea tessuti sostenibili con gli agrumi e ha vinto il Green Carpet Fashion Award Italia nella categoria Innovation.

L’impegno di Greenpeace per una moda più sostenibile ha avuto il suo momento chiave nel 2011 quando l’associazione ha lanciato il Detox Commitment contro gli agenti tossici impiegati nella produzione dell’ abbigliamento al quale hanno aderito big player come in gruppo Inditex (Zara), Benetton e H&M. Il progetto, il cui scopo è l’eliminazione degli agenti tossici entro tre anni, coinvolge oggi circa il 15% della filiera tessile globale.

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