«Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo», fa dire Marguerite Yourcenar all’imperatore Adriano nelle sue Memorie. La stessa considerazione, che concentra impegno, piacere, passione, potrebbe essere condivisa dalle “piccole mani” dell’atelier di haute couture Valentino, annoverate fra i responsabili della bellezza del mondo contemporaneo.
L’atelier è l’anima della maison fondata da Valentino Garavani nel 1959 a Roma, dopo l’esperienza parigina con Dessès e Laroche, e che solo nel 1970 presentò la sua prima collezione prêt-à-porter. Ospitato nel palazzo che si affaccia su piazza Mignanelli, edificio del Cinquecento sorto dove c’erano i magnifici Horti Luculliani nel I secolo a.C. e sede di Valentino già dal 1961, vive del lavoro di circa 70 fra sarte e sarti (gli uomini sono oggi il 10% del team) altamente specializzati, guidati da quattro “première”, che durante il periodo delle collezioni arrivano a essere ottanta.
Hanno in media fra i 40 e i 50 anni, pur se non mancano gli under 30, e vi lavorano in media da 15 anni, anche se alcune première vi hanno passato anche 50 anni della loro vita. Dal lavoro incessante delle piccole mani nascono le due collezioni annuali di haute couture, che sfilano tradizionalmente a Parigi, e le creazioni su misura chieste dalle ricchissime signore di tutto il mondo: abiti da sposa, da sera, capi spalla.
A quest’anima il direttore creativo Pierpaolo Piccioli ha dedicato proprio l’ultima collezione couture, presentata a gennaio, dove ogni creazione aveva il nome di chi l’aveva tradotta da disegno in abito: dunque “Irene” per un vestito di tulle nero con 700 gocce di garza applicate da una delle première, “Floriana”, con 275 merletti giganti d’organza cuciti a mano, “Giulia”, che ha fatto 1.900 incisioni su un panno di camoscio, “Samanta e Lucia” e “Giuseppe”, che hanno impiegato in tutto 1.600 ore per realizzare i motivi di tulipani, margherite e dalie sui due abiti.
«Non sono piccole mani, sono storie – aveva detto Piccioli al termine della sfilata –. In un’epoca virtuale e di accelerazione tecnologica, mi riempie d’orgoglio e di speranza sapere di mantenere viva e di far crescere questa bottega dell’arte».
Proprio il digitale, però, ha contribuito a far uscire l’arte dell’atelier dalle sue stanze, con il progetto social #mynameisvalentino, nove video con cui sarte e sarti hanno raccontato in un minuto chi sono e cosa amano fare: “sacrificio” ed “emozione” sono le parole più ricorrenti in queste piccole storie, usate per esempio da Rocco, in Valentino da sette anni, che dice di cucire anche quando si trova a casa con il suo bambino, oppure da Alessio, 28 anni, laureato in ingegneria ma folgorato dalla moda, o da Maria Antonietta ed Elide, in atelier da decenni, fra gioie e fatiche. Un amore ancora una volta ricambiato, poiché già nel 2015 i volti e i nomi dell’atelier erano stati pubblicati nel libro celebrativo della maison Valentino Mirabilia Romae, pubblicato da Assouline.
Con i loro camici bianchi, con la “V” ricamata sul taschino e le teste chine sui tavoli di lavoro, sarte e sarti sembrano monaci di uno scriptorium benedettino, luogo di protezione e trasmissione di saperi antichi, che si imparano iniziando con il ricamare piccoli punti e guardando il lavoro di chi ha più esperienza, per passare poi a essere “aiuto”, “rifinita” e poi, in alcuni casi, première. Ovviamente bisogna studiare, magari anche nella bottega couture di Valentino (si veda anche il box a fianco), ma quel che serve di più sono occhi, testa, mani, pazienza: «Bisogna aiutare i giovani, e anche coccolarli», dice la première Irene nel suo videoracconto, mentre Daniela parla di ogni abito come di un figlio, cresciuto con amore e poi lasciato andare a portare bellezza nel mondo.
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