La moda? Un inferno di fogge e voghe condannate alla dannazione dell’eterno ritorno. Trasformare una simile metafora in uno show tra le fiamme ambientato in una necropoli romana - che ispirò a Dante Alighieri i versi della Commedia dedicati agli eretici - divenuta nel Settecento pubblica passeggiata in grande spolvero tra intellettuali e non per corroborare lo spirito tra amenità funerarie, è un azzardo immaginifico che poteva venire in mente solo ad Alessandro Michele, il direttore creativo che ha fatto di Gucci il tempio pop dello storicismo infedele, visione personale del presente come accumulo e compresenza di tutto lo scibile, dalle origini ad oggi. Il tour delle precollezioni, dunque, si conclude ad Arles, nel sud della Francia, tra i sarcofagi scoperchiati e le vestigia funeree della Promenade des Alyscamps.
È ormai notte quando rimbombano i rintocchi di una campana, la nebbia - artificiale - si infittisce, le fiamme da B movie si alzano minacciose e compare la prima modella, vestita di rosa Miss Piggy con un tailleur trapuntato alla Chanel, al collo una croce di gemme, le calze di pizzo che velano le gambe di verde Kermit. Dietro di lei, una processione di oltre cento beautiful freaks, dalle vedove inconsolabili venute a portar mazzi di fiori appassiti sulla tomba del caro estinto, alle damine medievali in lunghe cappe e scarponi da Spice Girl, dagli efebi allampanati con i pantaloni stretti stretti che scandiscono a caratteri cubitali “memento mori” alle aspiranti rockstar con l’abito di velluto a zampa, dalle spose con lo strascico alle pulzelle avvolte in paramenti sacri.
È la galleria di personaggi estremi e teatrali - eretici, invero, pensando a Dante - cui Michele ci ha abituati da tempo, cosplayers rutilanti ai quali un piano di merchandising offre ogni sorta di prodotto. Nulla cambia davvero, dunque: la variazione reitera la formula, in una escalation manierista che questa volta include omaggi a Christian Lacroix, lo splendido couturier di Arles - presente e attento in prima fila - e una particolare attenzione agli accessori, con la Jackie bag riproposta e le scarpe estreme messe al centro del racconto. Il lessico Gucci azzera la storia perché è un megamix che attraversa secoli e decadi attualizzando ogni cosa nell’urgenza del look pop e costumistico. In quanto tale nega la novità di stagione, sicché la critica di monotonia è presto rintuzzata. Pura espressione dell’eterno presente della cultura contemporanea, è un magnifico argine contro la paura della morte.
C’è infatti una vitalità assoluta e ludica nel modo in cui Alessandro Michele disegna e assembla. Quel che invece manca alla fine di tutto nello show è lo straniamento: la distanza, o forse l’ironia, tra personaggio e messa in scena. I cosplayers di Gucci, con i canti gregoriani in sottofondo, sono dannatamente in parte, anche didascalici. Un po’ di sano pirandellismo aprirebbe un varco, perché il dubbio è progresso, sempre.
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