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Fra l’incendio emotivo di Prada e il rock democratico di Dsquared2, debutti e conferme della nuova creatività

(Afp)
(Afp)

Che la moda sia una forma bizzarra di commentario sul presente è cosa risaputa. Che il commentario di Miuccia Prada sia particolarmente bizzarro, finanche criptico e di certo divagante, pure. A questo giro la signora spinge fino in fondo il pedale dell'acceleratore di particelle, sbanda a destra e a manca e infine incendia l’etere, elettrizzando la seconda giornata di un calendario francamente fiacco.

Che ci sia voluta una collezione cosí, eccellente ma in fondo ricapitolativa di un certo pradismo e in grande debito verso le derive cartoon di Comme des Garçons, per elevare le sorti dell'italico fashion in questo triste frangente, dice molto della debacle attuale, ma tant’è.

Come sempre con Prada, i livelli di lettura sono multipli. Da un lato c’è il racconto della signora, dall’altro la narrativa della passerella. La verità dei fatti - sempre che quasta esista - è nel mezzo. Backstage Miuccia Prada parla di film horror e fantascienza, di riscossa degli ultimi, di romanticismo, ma anche di kitsch e della indispensabile sventatezza della moda, perché, sono parole sue, «prendersi troppo sul serio è un male: i vestiti sono vestiti». Nello show, l’horror è componente vaga: il set interamemente foderato di un bugnato di poliuretano insonorizzante da cella di isolamento un po’ terrorizza, ma le mega lampadine infilzate qui e lì sembrano inneggiare al raziocinio che illumina il buio della mente.

Confondente? Bien sur. Infine ci sono i vestiti, polarizzati su schieramenti opposti: il militare secco e il sartoriale disallineato da un lato e il kitsch festaiolo, pop e lisergico dall'altro; a unire i due, una pletora di trick e ninnoli. La sfilata è una progressione che parte dal nero e arriva al pelouche, con vari indugi nel clubbing demente: una romantica storia d’amore tra mondi forse insanabili, suggellata da cuori di panno infilzati con lo spillone da balia. Come ormai tipico di Prada, è la celebrazione dell’assemblaggio, ma l’esercizio di stile a questo giro non è sterile, perché il messaggio arriva dritto: se la vita prende a sberle con il cemento, ben venga l’emotività salvifica, e allora non ci resta che sregolare.

Sono della stessa opinione Dean e Dan Caten di DSquared2, che però portano il discorso in un ambito meno lambiccato e concettuale: in un disco club, o giù di lì, tra pigia pigia di corpi, buio pesto e musica trascinante. Non solo gli abiti sono un inno alle luccicanze e agli scintiliii che in discoteca non sono mai fuori posto, e che adesso sono distribuiti su tutto, dai parka e i pantaloni militari di lui ai miniabiti di lei, ma lo show stesso è una esperienza, fisicamente irritante, di democrazia festaiola, senza posti assegnati e nemmeno sedie. La regia non è priva di intoppi, ma il caos apparente veicola bene la nuova nonchalance del marchio, passo avanti rispetto al passato.

Da Etro, l’opulenza nomade di sempre ha un lustro particolarmente decadente che nasconde un’anima sostenibile: molti dei materiali utilizzati per vestaglie di goblin e cappotti di velluto sono infatti il frutto di ricerce tessili sul riuso dei materiali plastici. L’estetica, invece, ha un forte debito con Gucci.

Da Sunnei, Loris Messina e Simone Rizzo continuano a crescere senza rinunciare all'ottimismo e alla freschezza degli esordi. La collezione è matura, non sempre coesa, vincente nella rimuncia al trend del momento. Quel che di Sunnei piace è l'energia quasi adolescenziale, e la libertà dagli schemi. Per il resto, i due non giocano a fare i creatori, ed è un gran bene.

Altrove l'atmosfera è plumbea, di puro disagio urbano. L’atteso debutto in passerella di United Standard, il progetto moda dell’artista multimediale Giorgio Di Salvo - autore delle stampe che hanno segnato il primo successo di County of Milan - riunisce la creme del fighettume meneghino in un ruvido spazio industriale, per servire l’ennesima visione di workwear/streetwear da distopia fantascientifica. Non mancano spunti interessanti come i tessuti non tessuti e certe forme da laboratorio, ma nel complesso ci sono ancora troppe felpe e altre ovvietà street, sicché bisogna affinar il tiro, eventualmente uscendo dalla mentalità del ghetto cool di Porta Ticinese.

I marchi della terza generazione del Made in Italy, con dieci anni o anche meno di storia, continuano intanto a crescere, ed evolversi. Lo scenario della moda del resto è in costante mutamento, e chi si ferma è perduto. Marcelo Burlon, da County of Milan, rinunccia allo stretwear per un pastiche glitterato e animalier ispiarato ai Rom e a tutti i rinnegati dalla società normativa.

Da MSGM, Massimo Giorgetti abbandona le gioie dell'adolescenza per sprintare in un mondo adulto fatto di corse in macchina e consapevolezza. Visioni personali, anche se non sempre origininali, da apprezzare proprio per lo sforzo di non ripetere ad nauseam la formula. In tempi di magra, è già qualcosa.

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