La fama mondiale raggiunta da Greta Thunberg è legata, a un primo sguardo, al problema del cambiamento climatico e al pericolo che il nostro pianeta sta correndo, un pericolo di cui la classe politica di tutto il globo non si rende conto o sceglie di ignorare, denuncia da mesi Greta. Le cause del problema vengono da lontano, le responsabilità sono legate alle generazioni (non solo politiche) precedenti e richiedono soluzioni altrettanto complicate dal punto di vista temporale.
Interventi urgenti – secondo quanto sostiene Greta, attivista svedese di 16 anni – che i politici non vogliono fare, perché richiederebbero misure impopolari e che darebbero frutti solo a medio e lungo termine. Il contrario in altre parole del ragionamento della maggior parte dei politici, che purtroppo, a differenza degli statisti, hanno una visione a breve, un orizzonte che contempla, spesso, solo le elezioni più vicine. Greta ha iniziato saltando la scuola ogni venerdì per sedersi davanti al Parlamento di Stoccolma. I “Fridays for future”, complice uno strumento che gli attivisti “no global” di fine anni 90-inizio anni 2000 non avevano, internet e i social media, dalla Svezia sono stati realizzati in moltissimi altri Paesi. È così che si è arrivati allo “sciopero degli studenti” del 15 marzo, al quale hanno partecipato ragazze e ragazzi di tutto il mondo, Italia compresa.
Greta e lo spirito del tempo
I più superficiali e a tratti cinici e meschini critici di Greta, l’hanno bollata come una fanatica che sbaglia: benché la
maggior parte degli scienziati sostenga la veridicità del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici potenzialmente
catastrofici per il nostro pianeta, c’è anche chi nega tutto questo. Ma forse è sbagliato il punto di partenza: la protesta
di Greta e l’eco che ha avuto dimostrano il risveglio di una coscienza ambientale nei giovani. O meglio: dimostrano che i
giovani e giovanissimi sono nati con una coscienza ambientale che le altre generazioni non hanno mai avuto o non hanno più.
Erano gli anni 90 quando il Wwf sceglieva, tra i suoi tanti slogan: Take care of the planet. It’s the only one we have (Prendetevi, prendiamoci, cura del pianeta. È l’unico che abbiamo). Ora impazza There’s no planet B, sfruttando la diffusione del termine “plan B” (“piano B”) che sempre più occidentali vorrebbero avere per cambiare le rispettive
vite, schiacciate da ritmi di lavoro stressanti, per i più svariati motivi. Ma la sostanza è la stessa, con un aggravante,
forse, oggi: non si tratta solo di avere cura del pianeta per le generazioni future (chi non avesse figli potrebbe cinicamente
dire che il benessere del pianeta nei secoli a venire non è affar suo). Le conseguenze dei cambiamenti le stiamo già subendo,
tutti,a ogni latitudine. Secondo molti studiosi, al pare di guerre e povertà, i cambiamenti climatici alimenteranno con sempre
maggior intensità i flussi migratori. Stagioni impazzite, siccità improvvise, inondazioni impreviste e imprevedibili. E poi
i dati sulla sparizione delle specie, sulla fine della biodiversità, i bollettini di guerra su animali – e soprattutto piante
– estinti per sempre. Ai quali si aggiungono le cronache ormai quotidiane sulle condizioni di vita degli animali, in particolare
marini. Nell’ultimo mese sono state trovate decine di balene o altri grande cetacei uccisi dalla plastica che avevano ingerito.
Il tema del welfare animale
Non si possono combattere tante battaglie complesse contemporaneamente: Greta ha scelto il clima e chi scrive pensa che questa
ragazzina svedese sia una persona intelligente, coraggiosa e visionaria. Una candidata perfetta per un Nobel che non c’è,
allo stato delle cose, per esseri umani come Greta. Ma ci sono tante altre battaglie da combattere, sempre legate al tema
del pianeta e delle creature con le quali lo dividiamo. Una di queste riguarda i diritti degli animali, spesso ignorati o
in gran parte violati per ragioni economiche o di scelte di vita fatte da noi esseri umani. Abbiamo impostato i rapporti con
gli animali in una logica di asservimento ai nostri bisogni, alimentari e non solo. Secondo molti è ora di uscire da questa
logica. È il caso di chi chiede l’abolizione dell’utilizzo di pelli e pellicce animali per l’indusitra del tessile-abbigliamento-accessori.
Un tema destinato a tornare d’attualità con la messa in onda dell’inchiesta di Report sugli allevamenti.
I pionieri e i “followers”
Ci sono stiliste e aziende che hanno fatto della “sostenibilità animale”, potremmo dire, una caratteristica fondante dei
rispettivi marchi. Come Stella McCartney, designer, vegana, ambientalista: non ha mai utilizzato, per le sue collezioni di
borse, scarpe, capi di abbigliamento, materiali di origine animale. Molta eco ebbe la campagna della stilista a fianco della
Peta (People for the Ethical Treatment of Animals, organizzazione fondata nel 1980), lanciata in grande stile nel 2012 durante la settimana della moda di New York. Nonostante il consenso avuto da quella e
altre iniziative e a dispetto delle proteste ricorrenti davanti a sfilate di marchi famosi per l’utilizzo di pellicce, dal
2012 la situazione generale non è molto cambiata. A Milano si ricordano anche i sit-in con lancio di uova davanti alla Scala,
per la prima della stagione operistica, il 7 dicembre, in pieno inverno, dove spesso le signore si presentano impellicciate.
O forse sì, a guardar bene, qualcosa è cambiato: sono molti, anche famosi, i marchi che hanno annunciato di diventare fur
free o che sono nati addirittura animal free, come Save the Duck in Italia. Sul sito della Lav (Lega italiana antivivisezione, nata nel 1977) e in particolare nella sezione Animal Free, c’è l’elenco completo dei marchi e delle aziende che hanno aderito agli appelli delle associazioni ambientaliste internazionali
e il progetto Animal Free ha perfino istituito il “Rating Aff”, primo nel suo genere per la valutazione delle aziende basato
sul non utilizzo di materiali di origine animale. Rinunciando all’uso di pelliccia, piume, seta e pelle, lana l'azienda raggiunge
la corrispondente valutazione: V, VV, VVV, VVV+. Solo le aziende che hanno raggiunto almeno il livello “V” possono utilizzare
il marchio Animal Free per singoli prodotti o linee di prodotto che sono comunque già totalmente privi di materiali di origine
animale.
Si inizia dalle pellicce
Il primo passo verso un possibile scenario animal free, soprattutto per i grandi marchi, è comunque quello di scegliere una
politica fur free. Lo hanno fatto, negli ultimi anni, Gucci, Armani (in questo caso la scelta, pionieristica nell’alto di
gamma, risale addirittura al 2016), Versace, Hugo Boss, Burberry, Michael Kors, Furla, Diane von Furstenberg e altri operatori
del settore moda, non necessariamente marchi, come il leader mondiale dell’e-commerce d’abbigliamento Ynap (Yoox Net-A-Porter-Group)
e, da pochi mesi, la fashion week di Londra, anche se non è chiaro a che tipo di “obblighi” debbano sottostare i marchi inseriti
nel calendario. Alla lista potrebbe presto aggiungersi Prada, che dal 2018 ha ridotto drasticamente l’utilizzo di pellicce
per le collezioni, ma ancora non può definirsi fur free.
Lo chiede il mercato?
In un articolo pubblicato il 15 ottobre 2018 da Business of Fashion, sito di riferimento per l’industria della moda, si teorizzava
il perché dell’inesorabilità del movimento fur free. L’articolo si intitolava Why Fashion's Anti-Fur Movement Is Winning. Brands from Gucci to Michael Kors and DVF have recently stopped using fur, calculating
that the goodwill generated with younger customers, and a reprieve from social media-amplified protests by animal-rights activists,
is worth a few million dollars in lost sales. Secondo Bof alla base della decisione di marchi importanti (Gucci è tra i tre più grandi al mondo nel lusso) c’è la necessità
di cogliere lo spirito e le esigenze dei consumatori più giovani che, come dicevamo parlando di Greta, hanno una coscienza
“planetaria” sconosciuta a molti adulti. Come dato a sostegno, si ricorda il numero di likes (quasi 180mila) ricevuti in poche
ore dal post di Instagram in cui l’account Gucci annunciava la scelta fur free.
La richiesta della Lav e la proposta di legge in Parlamento
La Lav commenta sempre con soddisfazione le decisioni fur free di singoli marchi, ma chiede un passo istituzionale, ricordando
che sono già otto i Paesi dell’Unione Europea che hanno formalmente vietato l'allevamento di animali per la produzione di
pellicce (Austria, Belgio, Croazia, Lussemburgo, Olanda, Repubblica Ceca, Slovenia, Regno Unito). A questi si aggiunge la
Danimarca (che ha vietato per ora solo l'allevamento delle volpi), ma anche Bosnia, Macedonia, Serbia e persino la Norvegia
(dal 2025). «Altri paesi come Germania, Svizzera, Spagna e Svezia hanno introdotto parametri gestionali e dimensionali minimi
e che, per l'impossibilità di essere rispettati, stanno portando a una graduale fine di questa forma di allevamento», ricorda
la Lav. In Italia c’è una proposta di legge della stessa Lav (già presentata alla Camera e al Senato), ma ferma da anni.
La situazione in Italia
Nel nostro Paese abbiamo un’industria conciaria e della pellicceria impegnata da molti anni per rispettare standard di trasparenza
e, soprattutto, di rispetto del welfare degli animali. Nell’inchiesta di Report vengono denunciate situazione al limite o
fuori da ogni legalità. Ma il tema resta e, come sempre in questi casi, va visto da molti punti di vista. Come quello di chi
lavora in queste filiere e dell’associazione che le rappresenta a livello internazionale, International Fur Federation (Iff).
La posizione ufficiale
Dopo l’annuncio della scelta fur free da parte di Diane Von Furstenberg (ottobre 2018), scelta di peso perché la stilista
è stata anche presidente della Camera della moda americana (Cfda), arrivò un commento abbastanza secco di Mark Oaten, ceo
della Iff: «Diane von Furstenberg è una designer che ammiriamo enormemente. Eppure oggi, si è unita ai brand che stanno cedendo
alle pressioni e alle intimidazioni di gruppi come la Pera. Le loro opinioni estremiste li portano a prendere decisioni discutibili.
Hanno posto il veto sull'uso della sperimentazione degli animali, nonostante questa contribuisca alla ricerca contro l'Hiv
e hanno paragonato in modo inappropriato l'industria alimentare dei polli all'olocausto ebraico. E' largamente fuorviante,
mal informato e obsoleto affermare che l'allevamento di pellicce sia al servizio della moda e dell'immagine. Dovrebbero invece
essere più preoccupati per le pellicce finte, “sofisticate alternative” alla pelliccia naturale, fatte di plastica e materiali
sintetici, non biodegradabili, contribuendo a fare dell'industria della moda il secondo settore più inquinante al mondo, dopo
il petrolio, componente chiave nella produzione di pellicce finte. È tempo che i designer che aderiscono a questo “trend”
comincino ad essere onesti con i loro consumatori e con i media. Bisogna mettere fine a queste ciniche strategie e riflettere
sulla contraddizione dei designer che rinunciano alla pellicce ma continuano a lavorare con pelli di serpente e alligatore
e con altri materiali di derivazione animale, che sono in realtà meno sostenibili della pelliccia. L'International Fur Federation
supporta pellicce naturali e sostenibili aderendo ad un programma di trasparenza e tracciabilità. Iff lavora instancabilmente
per continuare a rafforzare i regolamenti dell'intera filiera. Brand e designer dovrebbero rispettare la libertà di scelta
dei loro clienti».
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