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Ecco perché le banche centrali hanno paura di alzare i tassi. E stanno…

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L’ERA GLACIALE DELLA FINANZA

Ecco perché le banche centrali hanno paura di alzare i tassi. E stanno creando un'altra maxi-bolla

Da sette anni il tasso di interesse negli Usa è fermo al range 0-0,25%. Nell’Eurozona, dove il tasso della Bce è fermo allo 0,05% accade anche che circa il 60% delle obbligazioni governative tedesche in circolazione offrano rendimenti negativi, così come il 45% di quelle francesi, l'80% di quelle svizzere. Sottozero viaggia anche il 30% dei titoli giapponesi. Ma, se vogliamo, questa non è una novità dato che da 15 anni il Giappone combatte con la deflazione e fa fatica a riportare un po’ in alto il livello dei prezzi pur avendo varato dal 2012 un corposo piano di iniezione monetaria (quantitative easing).

La sfilza dei paradossi non finisce qui. Da inizio anno 26 banche centrali in tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse. La Svezia ha portato il tasso di riferimento a -0,25%, la Svizzera a -0,75%. Lo stesso livello della Banca della Danimarca che ha operato quattro tagli in un mese portando appunto il tasso di riferimento su livelli glaciali: -0,75%. Un tasso che “costringe” adesso le banche danesi a vendere mutui a tassi negativi. In pratica il cliente riceve degli interessi per chiedere denaro in prestito.

È il ribaltamento della finanza. Uno dei tanti segnali che qualcosa sta andando storto, che al di là delle frasi di facciata che riproducono ottimismo la nuova era glaciale della finanza, quella dei tassi sottozero delle banche centrali, non promette nulla di buono del medio-termine.

Del resto, perché è scoppiata l’ultima crisi finanziaria globale nel 2007? I derivati subprime venduti dalle banche Usa in tutto il mondo sono collassati dopo che la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse. L’ex governatore Alan Greenspan viene ancora accusato di questo quando gira il mondo nel suo nuovo ruolo di conferenziere. Siamo a metà 2000 quando decise di iniziare a tagliare i tassi portandoli rapidamente dal 6% all’1% del 2004. Allo stesso tempo di fronte a tassi di interessi così bassi (a quel tempo erano ai minimi storici) le banche Usa iniziarono a prestare a raffica mutui a tasso variabile senza chiedere troppe garanzie. Perché l’obiettivo finale non erano i guadagni sui mutui ma quelli derivanti dall’impacchettamento di quei prestiti in obbligazioni da vendere in giro con cedole più alte dei magri tassi di interesse dei bond governativi. Per questo motivo venivano concessi a maglie larghe, anche a redditi subprime.

La bolla è scoppiata quando lo stesso Greenspan, preoccupato per un surriscaldamento dell’economia e di un’impennata dell’inflazione, rialzò i tassi velocemente portandoli dall’1% del 2004 al 5,5% del 2006. A quel punto il castello dei mutui a tassi variabili subprime e dei derivati annessi ci ha messo un paio d’anni per crollare del tutto, culminando nel settembre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers.

La storia recentissima (l’ultima crisi finanziaria in ordine cronologico) ci insegna, quindi, la pericolosità di “giocare” a lungo con i tassi bassi. Ma in economia spesso si cade nella tentazione di dimenticare le lezioni del passato e di pensare che “questa volta sarà diverso”.

Oggi ci troviamo in una situazione potenzialmente più esplosiva nel medio termine rispetto alla crisi subprime, e in parte è figlia delle toppe inadeguate utilizzate per tentare di uscire dalla crisi finanziaria mondiale che ne è scaturita. Perché non è affatto normale un mondo dove da sette anni la Federal Reserve continua a tenere a zero i tassi. Nello stesso arco temporale ha varato tre piani di quantitative easing ma l’inflazione continua a volare molto basso. E non è affatto normale che la Fed non sia un caso isolato. Con forte ritardo la Bce ha prima portato i tassi a 0 (settembre 2014) e poi varato anch’essa un piano di quantitative easing (marzo 2015) che è in pratica l’arma di ultima istanza per una banca centrale, azionata quando non può più agire sulla leva dei tassi.

La mossa della Bce ha a sua volta innescato la reazione di altre banche centrali europee (ma di Paesi che non utilizzano l’euro come la Svizzera e la Danimarca) che sono state costrette a spingere i tassi sottozero pur di impedire una forte rivalutazione della propria valuta nei confronti dell’euro, in caduta dopo la mossa svalutativa della Bce di immettere nuova moneta al ritmo di 60 miliardi di euro al mese almeno fino a settembre 2016.

È evidente, quindi, che ci troviamo in una nuova era, l’era glaciale della finanza. Le principali banche centrali, a furia di non affrontare gli eccessi degli ultimi anni della finanza (ad esempio evitando riforme nella direzione di una separazione tra banche tradizionali e banche di investimento) hanno assecondato le svariate bolle che la finanza privata ha creato, finendo anch’esse in bolla, ovvero tutte ad armeggiare con tassi azzerati e manovre di iniezione monetaria per contrastare il fisiologico rischio di deflazione globale che ne è scaturito.

A questo punto, quando gli Stati Uniti dopo sette anni di pausa si apprestano a rialzare i tassi, resta da chiedersi cosa accadrà. Scoppierà un’altra crisi subprime? Tutti coloro che si sono indebitati a tasso variabile azzerato negli Usa riusciranno nei prossimi anni a reggere l’aumento? Il Tesoro americano, che già deve fronteggiare un enorme deficit, riuscirà a far quadrare i conti dovendo pagare tassi più alti sul debito? A parte queste incognite una certezza c’è già. I primi a soffrire di una stretta monetaria negli Usa saranno sicuramente i Paesi emergenti, che hanno un forte debito in dollari e che rischiano di non poter onorare il debito in una valuta che varrà di più dopo un rialzo dei tassi Usa rispetto alle divise locali emergenti.

Si calcola che nei debiti in dollari dei Paesi emergenti ci sia una bolla inesplosa di 9mila miliardi di dollari. È un punto questo, estremamente delicato, sollevato anche dal presidente del Fmi, Christine Lagarde, che ha ammonito sui rischi di instabilità finanziaria.

Sarà anche per questo motivo che gli Usa continuano a rimandare i tempi della stretta, pur di fronte a un tasso di disoccupazione che (per quanto non conteggi il numero crescente di chi non cerca più lavoro perché scoraggiato) è sceso ufficialmente al 5,5% e potrebbe anche bucare la soglia del 5% nel terzo trimestre dell’anno. A fine 2014 le previsioni davano probabile un rialzo dei tassi ad aprile ma ora i future sui Fed Fund hanno spostato la probabilità ad ottobre.

La verità è che la Fed ha paura di alzare i tassi. Perché l’ultima volta che lo ha fatto è successo un pandemonio (bolla subprime). E adesso, nessuno può escludere che, prima nei Paesi emergenti e poi a cascata altrove, non ne scoppi un altro.

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