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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2015 alle ore 08:12.

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L’uccisione del “ministro del Petrolio” del Califfato Abu Sayyaf con un blitz in Siria delle teste di cuoio americane è una svolta dopo quattro anni di guerra devastante. Non è la prima volta che vengono colpiti i leader dell’Isis ma questa è la prima vera incursione in territorio siriano, a parte il fallito tentativo per la liberazione dell’ostaggio James Foley. Indica che gli Usa non solo guidano i raid aerei della coalizione ma prendono di mira la leadeship dello Stato Islamico con azioni limitate di terra. Significativo che l’ordine di attacco di Barack Obama sia venuto da Camp David dove si è da poco concluso il contrastato vertice con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo che temono un eventuale accordo con l’Iran sul nucleare e vogliono dire una parola decisiva sul futuro della Siria, dell’Iraq e dello Yemen.

La svolta militare potrebbe essere anche politica. Stati Uniti e Russia, nel recente incontro tra il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, hanno cominciato a discutere del post Assad, dopo avere preso atto che le forze ostili al presidente siriano stanno conquistando terreno e il regime ha il fiato corto: mancano soldati e soldi per finanziare la guerra, nonostante l’appoggio di Teheran, di Mosca e lo schieramento sempre più frequente degli Hezbollah libanesi. Sono proprio le milizie sciite che stanno mettendo a segno qualche successo, come la riconquista delle alture del Qalamoun, mentre le forze armate siriane sono lacerate sulla condotta della guerra.

Né Mosca né Teheran hanno rinunciato a difendere Assad ma c’è il rischio che buona parte della Siria possa finire in mano ai jihadisti del Califfato o di Jabat al Nusra, gli affiliati di al-Qaeda. Una prospettiva che non può piacere a Washington e potrebbe significare una debàcle per Mosca che a Tartous controlla l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Questa non è l’unica ipotesi sul futuro del dopo Assad. Da qualche tempo circola una mappa degli inglesi per una divisione della Siria che prevede a Nord la zona autonoma curda di Rojava, al centro e a Est una Siria a maggioranza sunnita e sulla costa un mini-stato alauita tra Latakia e Banyas. Scenari che passano anche dall’accordo, finora mai decollato, tra Turchia e Stati Uniti - finanziato da Arabia Saudita e Qatar - per la costituzione di un New Army siriano destinato a occupare il Nord, la regione di confine che interessa di più la diplomazia di Ankara.

Mentre il Califfato, nonostante l’uccisione di alcuni capi come Al Afri, braccio destro di Al Baghdadi, non è sconfitto, perché issa la bandera nera a Palmira, a Ramadi in Iraq e alla periferia di Damasco, la spartizione della Siria, una sorta di Jugoslavia araba, appare sempre più probabile: ma nessuno sa davvero cosa nascerà dal corpo dilaniato di una nazione in macerie dove insieme alle memorie millenarie del passato sparisce anche il futuro.

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