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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2015 alle ore 06:37.

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Tra polemiche roventi negli Stati Uniti e tra alleati, il Medio Oriente si disintegra insieme a equilibri storici che duravano dalla fine della seconda guerra mondiale, le cui celebrazioni per il 70° anniversario sono passate senza che nessuno si ricordasse né della Conferenza di Teheran del ’43, né del coinvolgimento di Iraq e Iran nella battaglia contro il Terzo Reich che portò gli americani, che volevano il ritiro delle truppe sovietiche dal territorio iraniano, all’annuncio della dottrina Truman e all’inzio della Guerra Fredda.

Ma è non soltanto la memoria storica che fa difetto ai leader occidentali. Il tutto è accompagnato da paurose amnesie sul passato recente, dall’incertezza dilagante sul da farsi in vista di una riunione del 2 giugno a Parigi su Iraq e Siria che per la sua vacuità rischia di far rimpiangere persino le disgraziate spartizioni coloniali degli anni Venti del secolo scorso, all'indomani del crollo dell’Impero Ottomano. Negli Stati Uniti si dimenticano persino quello che hanno fatto in Iraq con l’invasione del 2003. «L’esercito iracheno manca della volontà di combattere», ha accusato il ministro della Difesa americano Ash Carter; «è informato male», ha replicato il premier iracheno Haider Abadi il quale ha assicurato che le forze di Baghdad riprenderanno presto Ramadi. Ma non si capisce come, se non le milizie sciite e i Pasdaran iraniani che con il generale Qassem Soleimani, capo delle forze speciali Al Qods, si aggiunge al coro delle polemiche: «Qui c’è rimasto soltanto l’Iran a lottare sul terreno contro lo Stato Islamico», verità un po’ parziale, che esclude i curdi e lascia ancora una volta ai margini i sunniti, ma che risponde alla realtà.

Chi racconta adesso a Washington che nel 2003 furono proprio gli Stati Uniti, dopo la caduta del raìs, a sciogliere le forze armate irachene, l’unico simbolo rimasto di unità del Paese? L’Iraq fu lasciato in mano agli sciiti mentre la minoranza sunnita covava malcontento e sentimenti di revanche che prima ha affidato ad Al Qaeda e poi al Califfato.

Forse ha ragione il repubblicano John McCain quando accusa Obama di non avere una strategia, raccomandando di inviare truppe sul terreno. Ma qual è stata finora la strategia dei repubblicani? Ostacolare in ogni modo, fino all’esasperazione, un accordo tra Teheran e il presidente americano per cambiare la politica mediorientale e combattere efficacemente il Califfato.

Cosa ci aspetta allora? Probabilmente non avremo mai più la stessa Siria, lo stesso Iraq, una penisola arabica e un Nordafrica come vengono ancora rappresentati su una carta geografica scaduta da un pezzo, ingiallita dalle guerre, dall’avanzata dello Stato Islamico in Mesopotamia, dai conflitti in Yemen e in Libia. Mentre da una parte l’Isis ha dimostrato in Iraq e in Siria di avere risorse e capacità inattese e l’Arabia Saudita è sempre più coinvolta nel tentativo di schiacciare la ribellione yemenita degli Houthi sciiti, dall’altra l’Iran scalpita per mettere le truppe a terra in Iraq.

Questi fatti ci dicono due cose. La prima che nella grave destabilizzazione del Medio Oriente, Riad e Teheran occupano il ruolo dei protagonisti. La seconda che questi due Stati si fronteggiano, sia pure indirettamente, per fare prevalere la propria parte anche a costo di rompere definitivamente un equilibrio storico. Una sfida che vede la contrapposizione tra l’Islam sunnita e l’Islam sciita: se si vuole questa è una semplificazione ma descrive a grandi linee quello che sta accadendo sullo scacchiere più ricco di conflitti e di petrolio del mondo.

Ma petrolio e religione non spiegano tutto. Iran e Arabia Saudita non sono i soli da avere l’ambizione di rifare la mappa del Medio Oriente. Forse anche gli stessi strateghi americani si stanno arrendendo all’idea di costituire un nuovo stato sunnita in Mesopotamia con pezzi di Siria e Iraq per soddisfare il desiderio di rivincita di Riad, per placare i suoi timori rivolti al contentimento dell’Iran ma anche per venire incontro alle ambizioni della Turchia di Erdogan, bastione della Nato, che vorrebbe estendere la sua influenza sulla provincia industriale di Aleppo e sui curdi. L’America di Obama, non troppo diversamente da quella dei repubblicani, non si vuole sbilanciare: non intende compromettere le vecchie alleanze con la dinastia degli Al Saud, potenza finanziaria e ricco mercato di export di armi, e allo stempo persegue un accordo con Teheran sul nucleare. È in questa incapacità di scegliere che il Califfato si consolida: presto forse dovremo chiamarlo con un altro nome, più adatto ai sensibili palati delle democrazie occidentali.

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