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il nobel a pechino

San Suu Kyi in Cina: l’icona della democrazia nella tana del partito unico

Pechino accoglie la leader e icona della lotta per la democratizzazione del Myanmar, Aung San Suu Kyi. Uno dei regimi più inflessibili con i dissidenti ospita per cinque giorni “la” dissidente, l’eroina che ha sfidato una dittatura, ne ha sopportato per vent’anni la repressione e alla fine ha vinto la battaglia. La stessa parabola tentata, spesso con esiti tragicamente diversi, da centinaia di oppositori del Partito comunista cinese, dozzine dei quali sono in carcere, a partire da Liu Xiaobo, Nobel per la pace proprio come San Suu Kyi. Un parallelo che i blogger cinesi più coraggiosi, quelli che osano sfidare la censura, non hanno mancato di fare. Invitando anzi la paladina birmana a sostenere la causa di Liu, in carcere dal 2009 con una condanna a 11 anni per aver invocato la fine del regime del partito unico.

Difficile che possano avere soddisfazione: San Suu Kyi non vuole e non può assumere posizioni anti-cinesi e del resto non si è mai espressa apertamente nemmeno contro la repressione attuata dal proprio Paese a maggioranza buddista nei confronti della minoranza musulmana rohingya, costretta in condizioni di semi-apartheid.

L’”Orchidea di ferro” è arrivata a Pechino mercoledì e terminerà la sua visita il 14. Del suo viaggio si sa ancora poco o nulla se non che incontrerà sia il presidente Xi Jinping che il primo ministro Li Keqiang. Quasi uno Stato vassallo nei decenni della dittatura militare e dell’embargo internazionale, il Myanmar ha progressivamente raffreddato i rapporti con il padrino cinese proprio in parallelo con il processo di democratizzazione innescato dopo la liberazione di San Suu Kyi dagli arresti domiciliari, nel 2010. La successiva riammissione nell’alveo della comunità internazionale, lo sbarco delle multinazionali statunitensi e le aperture nei confronti di Washington (Obama ha visitato Paese nel 2012 e poi nel 2014) non hanno certo fatto piacere a Pechino, che gioca una partita per il controllo della regione nella quale entra sempre più spesso in contrasto con i vicini e con gli Stati Uniti.

A complicare le cose è arrivata l’escalation delle tensioni nella regione del Kokang, lungo il la frontiera tra i due Stati, dove l’esercito birmano sta cercando di sedare la rivolta dei ribelli di etnia han (maggioritaria in Cina). Si sono già verificati incidenti, con colpi di artiglieria finiti in territorio cinese.

San Suu Kyi non può correre per la presidenza, in quanto i suoi due figli inglesi fanno scattare l’astruso divieto costituzionale (scritto e difeso dai militari) che sbarra la strada a chi ha discendenza di nazionalità non birmana. Il suo partito, la National league for democracy (Nld), sembra però destinato a vincere le elezioni che si terranno a novembre. Questo non significa che gli epigoni della giunta militare perderanno tutta la loro ingombrante presa sul Paese, ma Pechino dovrà comunque fare i conti con una situazione politica diversa. E se il Myanmar non può pensare di poter fare a meno del suo potente vicino e dei miliardi di dollari che investe nel suo sviluppo economico, d’altro canto Pechino non può accettare di vedere il Paese scivolare fuori dalla propria sfera d’influenza. Così ha iniziato a costruire rapporti con San Suu Kyi fin dal 2012 e i media di Stato seguono con attenzione la vita del suo partito. Ha bisogno di rimediare all’ampia impopolarità di cui soffre nell’opinione pubblica birmana, che, finalmente libera di esprimersi, ha già bloccato la costruzione di una diga finanziata da capitali cinesi.

San Suu Kyi, da parte sua, ha sempre sostenuto che il Myanmar deve avere relazioni amichevoli con la Cina e la visita a Pechino ne dimostra la determinazione ad accumulare le credenziali diplomatiche che le servono nella battaglia per la guida del Paese, che di certo non si ferma di fronte al divieto oggi presente nella Costituzione. Da attivista dei diritti civili, però, San Suu Kyi deve trasformarsi, almeno in parte, in politico pragmatico, affidabile anche agli occhi della comunità degli investitori, che finora ha poco da rimproverare al governo dell’ex generale Thein Sein e che per la Lady preferirebbe un ruolo simbolico, da “ambasciatore” del Paese, piuttosto che da timoniere.

Il Myanmar è una calamita per le multinazionali di tutto il mondo. Nell’anno fiscale scorso (2014/15), gli investimenti diretti esteri hanno raggiunto quota 8,1 miliardi di dollari, 3 in più delle previsioni del governo, quasi il doppio rispetto all’anno precedente e 25 volte i 330 milioni del 2009/10. Nel complesso, la Cina resta il primo investitore con 14,8 miliardi (e altri 7 arrivano da Hong Kong). Seguono Thailandia (10,3) e Singapore 8,8.


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