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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2015 alle ore 08:12.

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Per cercare di capire quali sfide attendono la Cassa depositi e prestiti, che si accinge a un prossimo cambio di vertice (con Claudio Costamagna designato alla presidenza e Fabio Gallia in pole position per la poltrona di ad), bisogna partire dalle dichiarazioni del consigliere economico del premier, Andrea Guerra, registrate ieri da Radiocor. «La Cassa ha avuto un ruolo fondamentale fino a oggi, ha ottenuto risultati importanti. Ha ottenuto una buona redditività, è stata gestita in modo manageriale. Non c’è un desiderio di cambiare la missione della Cassa».

Nessuno stravolgimento della rotta, ha fatto quindi capire Guerra rassicurando le fondazioni, socie di minoranza, come pure l’Europa e Bankitalia, «ma una maggiore proattività, incisività e in un orizzonte di lungo periodo» per potenziare e rendere ancora più efficace la spinta che finora la Cassa ha assicurato al sistema Paese. Insomma, rendere ancora di più Cdp un importante alleato del paese nella crescita e nello sviluppo, come ha avuto modo di rimarcare ieri anche il premier, Matteo Renzi, che ha ricordato, come in questi anni, i vertici abbiano ottenuto importanti risultati nel supporto all’economia.

I numeri, che accompagnano la gestione del tandem Gorno Tempini-Bassanini, ne sono la prova: un attivo che, tra il 2010 e il 2014, è passato da 249,2 miliardi a quota 350 miliardi, un patrimonio netto che è cresciuto a 19,6 miliardi (rispetto ai 13,7 miliardi del 2010), e un 2014 archiviato con 2,2 miliardi di utili e 853 milioni di dividendi distribuiti ai due soci. Senza contare, poi, le risorse (90 miliardi di euro) dell’ultimo piano industriale 2013-2015 a conferma di un ruolo sempre più strategico per il sistema-Paese e di quella «posizione di primo piano tra le grandi istituzioni finanziarie pubbliche del mondo» (copyright del premier).

Ora, però, alla Cassa e ai nuovi vertici sarà chiesto di fare un ulteriore salto di livello. Le prossime sfide sono dietro l’angolo: dal fondo di turnaround a una maggiore catalizzazione dei capitali esteri, fino al piano per la banda ultralarga, su cui anche il presidente uscente Franco Bassanini continuerà ad avere un ruolo importante in quanto presidente di Metroweb, prim’ancora che come consigliere speciale del premier. Ma tutto ciò non potrà svilupparsi immaginando che la Cassa diventi una sorta di “fondo sovrano”, con disponibilità da centinaia di miliardi, al pari dei fondi sovrani europei o asiatici, vista la struttura di capitale della stessa che, a dispetto di un attivo di oltre 350 miliardi, non dispone di un free capital tale da poter competere con la potenza di fuoco dei fondi esteri, dal momento che 150 miliardi sono impegnati nel finanziamento del debito pubblico, 90 miliardi in mutui e finanziamenti agli enti locali, 16 miliardi come plafond Pmi, e via discorrendo.

La correzione di rotta dovrà semmai avvenire sfruttando gli strumenti già disponibili, ma anche le ultime leve messe a disposizione. Il tutto, ovviamente, tenendo presente la necessità, come hanno ribadito anche le fondazioni, di non intaccare la redditività della Cassa e di non trasformare la spa di Via Goito in una nuova Iri. Un primo banco di prova è già dietro l’angolo ed è, per l’appunto, quel fondo salva-imprese su cui la Cassa si è impegnata a partecipare, approvando nei giorni scorsi una «manifestazione d’interesse, preliminare e non vincolante», alla quale è collegata la possibilità di mettere sul piatto fino a un miliardo di euro come investitore garantito. Al fondo, che dovrebbe vedere la discesa in campo anche di altri soggetti pubblici (come Poste e Inail), è legata anche la partita dell’Ilva che in questi mesi ha visto confrontarsi l’esecutivo e i vertici di Cdp, non senza momenti di frizione e distinguo. La genesi è stata lunga e tormentata, con l’ad Gorno Tempini che ha frenato sulla richiesta di una iniezione diretta di risorse nel fondo senza “coperture” dello Stato (poi assicurate), per dare poi la disponibilità fino a 400 milioni. Un impegno giudicato però insufficiente dall’esecutivo - visto che al fondo si chiederà uno sforzo consistente, non solo su Ilva ma su almeno 10-15 operazioni - e che ha determinato una delle fratture con Palazzo Chigi. Su decisioni come queste, i nuovi vertici sono considerati dal governo più disponibili. È chiaro, però, che la declinazione del fondo andrà attentamente ponderata. Per ora, sul piatto, ci sono due possibili scenari: la creazione di una newco che raccoglierà i capitali e li inietterà nelle società selezionate o, in alternativa, il ricorso al fondo per acquisire obbligazioni emesse dalle aziende “target”, a cominciare proprio dall’Ilva. E, sul copione che l’esecutivo scriverà per questo strumento, saranno accesi i riflettori anche di Bruxelles, pronta a sanzionare qualsiasi aiuto di Stato. Che, in questo caso, sembrerebbe scongiurato data la prevista partecipazione dei privati con la loro presa di rischio nella scelta degli investimenti. Ma il prosieguo è ancora tutto da scrivere.

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