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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2015 alle ore 06:36.
«Le cose sono cambiate, il Portogallo è molto più solido di quanto fosse nel 2011 quando siamo stati costretti a chiedere il salvataggio internazionale per evitare il default. Sappiamo che c’è la protezione della Bce. Ma la Grecia non ci fa dormire da giorni». Al telefono da Lisbona un esponente del governo vicino al premier Pedro Passos Coelho non riesce a celare i propri timori. «È inevitabile avere paura - aggiunge - se anche Mario Draghi ci ricorda che il precipitare della crisi di Atene ci porterebbe in acque inesplorate». In questi quattro anni, il Portogallo ha fatto tutto quello che Bruxelles chiedeva: riforme strutturali, privatizzazioni e risanamento del bilancio pubblico per poi uscire dal programma di aiuti, a testa alta senza ulteriori sostegni.
La Spagna, a lungo la grande malata del Sud Europa, sperava di essersi lasciata alle spalle ogni rischio di contagio: le banche sono state ricapitalizzate, la ripresa economica si va rafforzando e gli acquisti della Bce stanno proteggendo anche Madrid. Ma la perseveranza con la quale il primo ministro Mariano Rajoy continua a negare «ogni possibilità di contagio dalla Grecia», lascia trasparire una certa, comprensibile, preoccupazione.
I governi di Portogallo e Spagna guardano alla Grecia con la fermezza di chi ha accettato diligentemente le imposizioni della troika e continua ad essere allineato alle posizioni dei più forti, la Germania e i Paesi nordici. E tuttavia, ai vertici europei, sono i primi tifosi di Atene, i primi a sperare che il neologismo Grexit venga dimenticato prima che venga il turno di qualcun altro, magari il loro.
Gli indici di Borsa e le tensioni sui rendimenti dei debiti sovrani hanno fatto capire, anche nell’ultima settimana, che il fallimento dei negoziati tra Bruxelles e Atene aprirebbe una fase di incertezza che finirebbe per danneggiare i Paesi più deboli dell’Eurozona. E questo nonostante i costanti progressi dei due Paesi. Proprio ieri la Banca centrale di Madrid ha rivisto al rialzo le stime di crescita dell’economia spagnola per il 2015 portandole dal 2,8 al 3,1% e il ministro dell’Economia Luis de Guindos ha assicurato che «l’economia spagnola è avviata a ritornare ai livelli pre-crisi per la fine del 2016» dicendosi ottimista anche sul recupero di posti di lavoro, con il tasso di disoccupazione che resta tuttavia ancora altissimo, vicino al 24 per cento. Il Portogallo sta vivendo la fase di maggiore espansione degli ultimi dieci anni con il Pil che nel 2015 dovrebbe aumentare -secondo la Commissione europea - dell’1,6% quest’anno e dell’1,7% nel 2016.
«Penso che il contagio dalla crisi greca sarà limitato per la Spagna, principalmente perché - dice Antonio Roldan, analista di Eurasia Group - la Bce continuerà a garantire il suo sostegno ma anche perché i fondamentali dell’economia spagnola sono più solidi. Ma un contagio ci sarà perché Madrid condivide con Atene alcune debolezze strutturali: prime fra tutte il debito pubblico molto elevato e l’incertezza politica». Più critica sembra la situazione di Lisbona: «Il Portogallo, dopo la Grecia, è l’anello debole dell’Eurozona», spiega ancora Roldan.
Le elezioni generali che si terranno in entrambi i Paesi nel prossimo autunno, aggiungeranno incertezza. In Spagna con l’aggravante - nella visione dei rigoristi della Ue e del Fondo monetario - di un movimento come Podemos, dichiaratamente anti-austeruty e troppo simile ai greci di Syriza.
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