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Gli hedge fund asiatici accentuano il calo dei prezzi delle materie prime

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con il nuovo ruolo della cina

Gli hedge fund asiatici accentuano il calo dei prezzi delle materie prime

Da oltre dieci anni è la stella polare che orienta i mercati delle materie prime. Ma il ruolo della Cina è cambiato: oggi non è più il gigante affamato, che ingurgitava quantità da primato di qualsiasi prodotto, dal petrolio ai latticini, spingendone i prezzi alle stelle, ma una pericolosa forza ribassista. Non solo perché i suoi consumi, già rallentati, rischiano ora di frenare in modo drastico, ma anche perché la sua presenza si è fatta più ingombrante anche sui mercati finanziari delle commodities. Con migliaia di hedge funds, spuntati letteralmente come funghi negli ultimi mesi, che in questo momento vendono a più non posso. In Cina, soprattutto, ma probabilmente anche altrove: al London Metal Exchange per esempio, dove i fondi cinesi sono diventati molto attivi, tanto che si sospetta che sia stato uno di loro - lo Shanghai Chaos - a far crollare il prezzo del rame a minimi pluriennali lo scorso gennaio.

Il metallo rosso ieri è sceso ancora più in basso a Londra, toccando per la prima volta dal 2009 5.240 $/tonnellata, seguito a ruota dagli altri non ferrosi, reduci da una seduta drammatica in Cina, dove erano tutti crollati fino ai limiti massimi consentiti dalle borse.
Con i listini azionari cinesi che continuano a crollare e l’operatività ridotta ai minimi termini (oltre metà dei titoli sono ormai sospesi dalle contrattazioni), gli investitori stanno affannosamente vendendo qualsiasi asset liquidabile. Le materie prime, che si possono tuttora vendere anche allo scoperto, sono diventate il bersaglio preferito.

Oltre ai metalli non ferrosi sono crollati anche i futures sul minerale di ferro - addirittura al minimo storico a Dalian - l’acciaio, l’oro. I volumi di scambio sono vorticosi e il numero di posizione aperte sta crescendo, corroborando l’ipotesi che siano in aumento i “corti”, ossia chi scommette al ribasso. Spesso è la necessità di rispondere a margin calls sempre più pressanti. Ma c’è anche chi è costretto a smontare operazioni di hedging, a fronte di metallo che aveva accumulato come collaterale per richiedere finanziamenti. Infine ci sono gli speculatori, che scommettono sulle probabili ricadute del crollo in Borsa sull’economia reale. I primi sintomi sono già visibili: in giugno le immatricolazioni di auto sono diminuite per la prima volta da oltre due anni.

L’enorme potenza della Cina come consumatore di materie prime è cosa nota. Pechino nel 2000 utilizzava il 12% dei metalli prodotti nel mondo, oggi la percentuale supera il 50%. Tra il 1998 e il 2008 la sua domanda di minerale di ferro è quintuplicata, mentre tra il 2003 e il 2012 la Cina è stata responsabile di due terzi della crescita della domanda globale di petrolio.
Meno noto è il boom dell’industria degli investimenti: grazie a una semplificazione dei processi autorizzativi il numero dei fondi privati è quasi raddoppiato in tre mesi, salendo da 7.989 a fine febbraio a 12.285 a fine maggio. Nello stesso periodo il gestito è sestuplicato: da 75 a 433 miliardi di dollari.

Anche le borse a termine delle materie prime hanno oggi dimensioni eccezionali in Cina: la Shanghai Futures Exchange è oggi la più grande del mondo, con 842 milioni di lotti scambiati l’anno scorso (+31%), contro i 177 milioni passati di mano al Lme.