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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2015 alle ore 06:35.

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Deboli, debolissime. Comunque vada a finire la crisi del debito sovrano della Grecia, le banche del Paese resteranno profondamente ferite dagli urti che hanno subito in questa lunga trattativa.

Una cura sarà necessaria. Le voci di mercato già parlano di una serie di fusioni, nel tempo, che potrebbero - per esempio - aggregare l’Alpha con Eurobank e Ethniki con Piraeus. Le prime quattro aziende di credito del paese - che, insieme alla quinta, coprono il 95% degli asset - potrebbero quindi diventare due con un’ulteriore, e non certo sana, concentrazione del mercato.

Sulle prospettive delle banche greche pesa molto la politica. E non solo quella di Atene. Al momento le banche sembrano solventi, anche se non liquide: in caso contrario la Banca di Grecia non potrebbe fornire loro la liquidità di emergenza con i programmi Ela. La scelta della Bce di porre comunque un tetto complessivo a queste iniezioni di denaro - una mossa dal sapore inevitabilmente politico - indipendentemente dal “merito” di ciascuna singola banca, mette tutte queste aziende sotto una pressione che non rientra certo negli schemi classici di questo tipo di intervento di emergenza.

Allo stesso modo le dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che ha messo in dubbio la solvibilità di questi istituti - con un impervio collegamento al referendum - mescola di nuovo tecnica e politica: l’analisi sulla solvibilità delle banche è molto complessa e l’errore più facile è definire insolvente un’azienda che in realtà è solo illiquida (lo stesso motivo, peraltro, potrebbe essere avanzato - come è stato fatto proprio sulla Grecia dall’economista Paul de Grauwe - per gli Stati).

Gli stress test avevano del resto dato un via libera, anche se non convintissimo. Le maggiori quattro banche greche non avevano superato in realtà l’esame di ottobre 2014: mancavano nove miliardi di capitali. Anche se «le proiezioni sulla dinamica dei loro bilanci», spiegava la Bce, le rendeva sufficientemente solide: i piani di ricapitalizzazione, varati ma non ancora realizzati, erano insomma giudicati sufficienti.

Ancora a fine marzo 2015, nelle loro relazioni semestrali, i quattro gruppi dichiaravano ratios patrimoniali (i Cet1) adeguati: 8,7% la Ethniki (la Banca nazionale greca), 12,6% la Alpha Bank e la Eurobank, 11,1% la Piraeus. Il problema sembrava venire dalla riduzione dei depositi, scesi al di sotto dei prestiti, ma soprattutto dalla massa delle sofferenze che, se trasformate in perdite, possono erodere il capitale e vanificare quei requisiti di solidità.

Il nodo è proprio questo: nella solidità “dinamica” dei bilanci. In cosa hanno investito le banche greche? Le aziende di credito islandesi sono riuscite a riprendersi perché erano soprattutto illiquide: i depositi e i tanti prestiti a breve termine erano investiti in attività sane, spesso all’estero, che sono state poi in parte vendute senza troppe perdite. È stato necessario l’aiuto pubblico - le banche sono state nazionalizzate - ma tutti i creditori sono stati soddisfatti.

La crisi economica in Grecia non lascia ben sperare. Il governo si aspetta ora una flessione del Pil - e quindi dei redditi - del 3% per quest’anno che potrà trasformare molte di quelle sofferenze in perdite effettive. Non è un caso se si parla già di una nuova ricapitalizzazione degli istituti, dopo quella varata in seguito al piano del 2012, e si scatenano le voci di un bail-in - un coinvolgimento dei creditori, forse anche dei depositanti - sotto forma di un prelievo fiscale mirato. Rumors a cui non bisogna dar ora credito perché del tutto privi di riscontri, ma che segnalano le dimensioni del problema, non certo addolcito dalla chiusura obbligata degli sportelli e dai controlli di capitale.

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