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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2015 alle ore 06:38.

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Chi lo ha condannato a morte è un tribunale ritenuto dai più illegittimo. E chi lo tiene in prigione da ormai quattro anni è una tribù che non vuole consegnarlo a nessuno; né al Governo ombra di Tripoli, né a quello riconosciuto dalla comunità internazionale, situato a Tobruk, né alla Corte penale internazionale dell’Aja. Il paradosso in cui si trova la Libia lo si coglie anche dalle anomalie del sistema giudiziario. Perché l’intricata vicenda giudiziaria che vede al centro Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito dei nove figli di Muammar Gheddafi, racconta con efficacia il caos in cui è sprofondato un Paese dove da quasi un anno due governi rivali si contendono il potere. E dove si è creato un pericoloso vuoto di potere che ha agevolato l’ascesa di cellule legate all’Isis.

Iniziamo dalla condanna di ieri. Saif al-Islam, insieme ad altri 8 libici appartenenti al passato regime - tra cui il capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi e il suo ex primo ministro, Baghdadi al-Mahmoudi - sono stati condannati a morte per fucilazione. Verdetto reso in contumacia. Perché il figlio dell’ex leader libico fu catturato nel novembre del 2011 da un gruppo di ribelli della regione di Zintan mentre stava fuggendo in Algeria o Niger. Gli Zintani si oppongono al governo islamico che dallo scorso agosto, appoggiato dalle milizie di Misurata, ha conquistato Tripoli. E in teoria sono alleati del Governo di Tobruk, il cui ministro della Giustizia, al-Mabruk Qarira, ha affermato di non riconoscere il procedimento giudiziario e la sentenza emessa dal tribunale di Tripoli.

Ma le cose non sono così semplici. Anche negli anni scorsi, quando in Libia c’era un solo governo, gli Zintani si erano sempre rifiutati di consegnare l’illustre detenuto alle autorità libiche. Insomma tutti vorrebbero mettere le mani su Saif e sui segreti di cui – si vocifera - è custode. Anche la Corte penale internazionale aveva emesso un mandato di arresto nei suoi confronti. L’accusa: crimini contro l’umanità e violenze contro le proteste. Ma anche la sua richiesta è caduta nel vuoto.

Ma chi è Saif al-Islam, considerato l’erede del regno di Gheddafi? La sua metamorfosi, tanto rapida quanto inattesa, aveva sorpreso il mondo. Conosciuto come moderato e amante delle riforme, aveva cercato di controbilanciare il pugno di ferro usato dal padre con una serie di riforme. Aveva fondato la Gaddafi International Foundation for Charity Associations e aveva assunto la direzione della rete tv al-Libiya, controllando il settore delle telecomunicazioni. Si era reso anche protagonista di un’apertura nei confronti dei detenuti dei gruppi salafiti/jihadisti della Cirenaica. Misure non apprezzate dal padre, che decise di oscurare la sua tv perché troppo favorevole a riforme e democrazia.

La svolta arriva nel febbraio del 2011, quando scoppiarono le prime rivolte a Bengasi. Saif si schiera col padre. La rivolta degenera in una sanguinaria guerra civile e l’ex moderato a questo punto guida la repressione. In marzo la sua avanzata è travolgente arriva alle porte di Bengasi, e se non fosse stato per quella risoluzione Onu 1773, adottata il 17 marzo 2011, che diede il via a una campagna aerea internazionale contro l’esercito di Gheddafi, le cose probabilmente sarebbero andate diversamente.

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