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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2015 alle ore 06:36.

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Se si deve intervenire in Libia, per frenare una deriva “alla somala” come dice il ministro degli Esteri Gentiloni, questa volta non si può sbagliare. Prima dei raid aerei occidentali nel 2011 promossi dalla Francia di Sarkozy, la guerra civile libica era sul punto di concludersi con un costo complessivo di circa mille vite umane: alla fine se ne contarono almeno 30mila, gli occidentali fecero le valigie, l’Onu si rivelò come al solito una macchina inefficace e la Libia venne abbandonata al suo destino, sperando, non si sa sulla base di quali ipotesi, che diventasse una stabile democrazia.

Gli appelli non bastano. In un nota diffusa dalla Farnesina i governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno condannato ieri gli atti barbarici dell’Isis a Sirte ma non sembra che si siano molto impegnati per evitare il disastro, affidandosi a un’esangue mediazione dell’Onu, senza neppure prevedere di bloccare i fondi alle fazioni erogati dalla Banca centrale libica in esilio a Malta, l’unica leva per convincere i riottosi esponenti di una Libia di milizie, tribù e cacicchi islamici.

Non solo i libici hanno dimostrato di non sapersi governare da soli ma il sedicente governo di Tobruk, benchè riconosciuto dalla comunità internazionale, non ha saputo fare di meglio che affidarsi agli egiziani e al generale Khalifa Haftar che per la verità è assai in difficoltà e non appare quel fulmine di guerra contrabbandato dai media. Non è riuscito a conquistare Bengasi, la città più importante della Cirenaica, e si trova a confinare sulla Sirte con il Califfato.

La colpa, dicono quelli di Tobruk, è dell’embargo che impedisce nel Paese l’afflusso di armi: eppure di armi la Libia sembra piena, tra quelle che provengono dagli arsenali di Gheddafi e quelle arrivate dopo. In realtà manca l’esercito, già poco strutturato se non assente ai tempi di Gheddafi e che oggi appare un aggregato evanescente di miliziani. L’addestramento l’avrebbero dovuto fare le potenze occidentali tra cui l’Italia: si partì tra squilli di tromba e poi non se ne è saputo più nulla. Come potesse reggersi un Paese vasto come la Libia e controllare i suoi confini senza un esercito e forze di polizia adeguate appare incomprensibile: crollato il regime del Colonnello era chiaro che le frontiere di sabbia della Libia sarebbero sprofondate nel Sahara.

È lo stesso errore che fecero gli americani nel 2003 quando bombardarono Saddam Hussein e poi decisero di sciogliere le forze armate irachene. Le conseguenze di quella iniziativa dovuta al proconsole americano Paul Bremer sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti: le forze armate di Baghdad non sono capaci di sostenere la guerra all’Isis per cui devono ricorrere ai raid della coalizione americana, ai marines come consiglieri sul campo, alle milizie sciite filo-iraniane e ai curdi, Pkk compreso, un fanteria anti-Califfato che l’Occidente ha lasciato alle vendette di Erdogan senza neppure un moto di vergogna.

Il governo di Tobruk chiederà alla Lega Araba di essere aiutato a bombardare i jihadisti della Sirte: in mancanza di un intervento europeo può essere una via di uscita per evitare un impegno occidentale immediato. Si guadagna un po’ di tempo davanti all’opinione pubblica, nella speranza che i governi di Tripoli e di Tobruk si mettano finalmente d’accordo. Ma aspettarsi soluzioni dai Paesi della Lega Araba è una scommessa: alcuni come l’Egitto sono direttamente coinvolti nei tentativi di spartizione del Paese in zone di influenza, altri in un passato assai recente sono stati sostenitori proprio dei jihadisti. La Libia inoltre confina con la Tunisia, sotto attacco dei miliziani della jihad che sono stati sostenuti da Paesi interessati alla destabilizzazione dell’unico esperimento democratico uscito quasi indenne dalla cosiddette primavere arabe.

Ma forse l’Europa pensa di potere controllare o limitare la disgregazione libica e i flussi dei migranti con missioni dal mare e dal cielo. Può darsi, anche se in trent’ anni di guerre in Medio Oriente e nel Levante non si è mai visto nessuno vincere una guerra da lontano. Come del resto se ne sono perse anche mettendo gli stivali sul terreno. I migranti sono gli ostaggi di questa situazione: manovrati non soltanto per guadagnare denaro ma anche come un’arma. Non solo dagli scafisti libici: basta guardare le migliaia di siriani arrivati nell’isola di Kos. Fino a poco tempo fa l’ineffabile Erdogan pensava di usarli nella battaglia contro Assad, adesso ha cambiato idea e li scarica nell’Egeo. Anche questo oggi è un modo di fare la guerra nel Mediterraneo.

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