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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2015 alle ore 07:09.

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È un crollo generalizzato quello che investe le valute legate alle materie prime e quelle dei Paesi emergenti. Ieri la tempesta si è abbattuta con forza su Russia, Kazakhstan e Sudafrica, tre economie fortemente dipendenti dai prezzi delle commodities. Il calo del petrolio non fa però sconti nemmeno ai Paesi avanzati e mette sotto pressione anche la corona norvegese, che in tre mesi ha perso il 10% e scambia ai minimi sull’euro da inizio anno. Sorte simile per il dollaro canadese.

Il crollo più clamoroso ieri ha travolto il tenge kazakho, che ha lasciato sul terreno il 23% dopo la decisione delle autorità di lasciare libero il cambio. Il Kazakhstan è il più grande esportatore di petrolio dell’Asia centrale e i suoi principali partner economici sono Russia e Cina, due Paesi che questa tempesta valutaria un po’ la subiscono e molto la alimentano. Mercoledì, la Banca centrale si era piegata alle pressioni dei mercati e aveva ampliato la banda di oscillazione del tenge, lasciandolo scivolare del 4,7%, ai minimi sul dollaro dal 1994. Poche ore dopo ha deciso di mollare le redini e ha liberalizzato un cambio evidentemente indifendibile. A nulla sono serviti i 28 miliardi di dollari bruciati in due anni per sostenerlo. Rispetto a 12 mesi fa, il tenge ha perso il 30%. Ieri, il presidente Nursultan Nazarbayev ha «chiesto» alle aziende esportatrici di vendere le loro “riserve” di valuta estera per aiutare a frenare la caduta.

Mercoledì era stato il Vietnam ad ampliare la banda d’oscillazione del suo dong, per la seconda volta in otto giorni, dopo averlo già fatto all’indomani della mossa della Banca centrale cinese che ha modificato il regime di regolamentazione dello yuan. Nella stessa regione, rupiah indonesiana e ringgit malese viaggiano già ai minimi dalla crisi del 1998.

Il rand sudafricano è tornato a sua volta ai livelli del 2001, ma in pochi si fregano le mani pensando ai potenziali benefici per le esportazioni. «Più debole è il rand - spiega Mohammed Nalla, di Nedbank Group - peggio è per le nostre aziende. Al Sudafrica mancano i capitali e se gli investitori diventano più selettivi, avere una moneta debole non ci darà nessun vantaggio».

Al crollo non può sfuggire il rublo, che ha ieri perso l’1%: in 12 mesi il crollo contro il dollaro è del 46% con un cambio ormai sopra quota 67, non troppo distante dai picchi toccati all’inizio dell’anno, quando la moneta era in pieno shock. L’economia russa si avvia a chiudere l’anno con una contrazione superiore al 3% stimato dalla Banca centrale, dopo aver accusato un calo del 4,6% nel secondo trimestre. Ieri, il ministro dell’Economia, Alexey Ulyukayev, ha ammesso che «se, come ritengo possibile, i prezzi del petrolio continueranno a scendere, il rublo proseguirà nella sua flessione».

La profonda instabilità politica e fattori eminentemente endogeni stanno alla base della debolezza della lira turca, che ha sfondato quota 3 contro il dollaro per la prima volta: il crollo da inizio anno è del 22%, del 6% solo nell’ultima settimana.

La caduta delle valute fa aumentare il valore dei debiti emessi in dollari dai Paesi emergenti, sommando un ulteriore fattore di destabilizzazione. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, in cinque anni queste economie hanno raddoppiato il debito detenuto in dollari, per un valore complessivo di 4.500 miliardi di dollari. In vista del rialzo della Federal Reserve - che arrivi a settembre o a dicembre fa poca differenza, come sottolinea Peter Rosenstreich di Swuissquote Bank - gli investitori stanno di conseguenza vendendo gli asset più rischiosi per tornare su sponde più solide e presto anche più redditizie. Secondo le stime di NN Investment Partners, citate dal Financial Times, poco meno di mille miliardi di dollari hanno preso il volo dai 19 maggiori Paesi emergenti negli ultimi 13 mesi. Quasi il doppio rispetto ai 480 miliardi usciti durante la crisi finanziaria 2008/09.

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