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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2015 alle ore 07:14.

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Che fare di fronte alla barbarie del Califfato? Il primo punto è che abbiamo la guerra alle porte di casa. L’Europa deve prendere atto di una realtà geopolitica ineludibile: dalla Siria all’Iraq, dallo Yemen alla Libia interi stati si stanno disgregando e la mappa del Medio Oriente riporta frontiere e nazioni che non esistono più.

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Anche le ondate dei migranti, sempre più consistenti, fanno parte di questa guerra perché gli attori coinvolti nel conflitto li manovrano come un’arma, come una merce di scambio e di profitto.

Questo processo di implosione, assolutamente fuori controllo, provoca un enorme vuoto di potere, già cominciato con l’attacco americano a Saddam nel 2003: l’Iraq è stata una calamita per al-Qaeda e lì è nato anche il Califfato di Abu Baqr al-Baghdadi. Poi sono venute, nel 2011, le rivolte arabe, un’occasione per abbattere autocrati senescenti ma anche per scatenare le ambizioni di rivincita delle potenze sunnite in lotta contro l’espansione dell’Iran degli ayatollah con cui gli Stati Uniti e l’Occidente hanno firmato l’accordo di Vienna sul nucleare.

Lo Stato Islamico e al-Qaeda, con le sue filiali come Jabat al-Nusra in Siria, sono la punta di diamante dell’oscurantismo sunnita. L’accordo di Vienna cambia i dati della situazione: l’Iran sciita, insieme alla Russia, sostiene Bashar Assad ma Teheran e Mosca sono pronte a un negoziato che preservi l’attuale regime in cambio di un appoggio alla guerra contro l’Isis.

Con l’Iran e la Russia si può trattare un’uscita di scena di Assad, sempre che la guerra al Califfato sia davvero una priorità dell'Occidente e dei suoi alleati. Su questo secondo punto è legittimo sollevare qualche dubbio. Basta vedere quanto è accaduto dopo avere imbarcato Tayyip Erdogan nella coalizione internazionale: i curdi del Pkk sono stati abbandonati alle vendette del presidente turco dopo che avevano costituito la fanteria dei raid americani contro i jihadisti. Del resto non c’era da aspettarsi niente di diverso da un presidente che per quattro anni ha tenuto aperta l’”autostrada dei jihadisti” alla frontiera turco-siriana.

Se si vuole combattere il Califfato l’Occidente non può continuare a mandare messaggi ambigui a quelli che sono i suoi alleati oggettivi sul terreno, dai curdi alle milizie sciite, agli Hezbollah libanesi. C’è da chiedersi se esiste una strategia europea contro il terrorismo e il Califfato. È venuto il momento di darsela, avviando anche gli sforzi diplomatici necessari per capire cosa vogliono i nostri alleati musulmani, dalla Turchia alle monarchie del Golfo, per troppo tempo coinvolte nell’appoggio ai gruppi radicali islamici che ora vorrebbero scaricare, almeno a parole. Fermare la guerra in Siria, l’Isis e i gruppi jihadisti senza di loro è impossibile: chiederanno contropartite importanti ma è un imperativo discuterle apertamente e non sotto traccia come è stato fatto finora.

Il risveglio dei sonnambuli occidentali è stato brusco e tardivo: il 29 giugno 2014, dopo avere catturato Mosul, città irachena di due milioni di abitanti, Abu Bakr al Baghdadi proclama il Califfato. È un seguace di al-Qaeda e di Abu Musab al-Zarqawi, che qualche anno prima di essere ucciso dai marines aveva messo le basi per un’evoluzione di Al Qaeda. In quelle settimane la bandiera nera sventola dalla periferia di Damasco a Makmour, caposaldo a mezz’ora d’auto da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno e dei pozzi di petrolio.

Un anno dopo il Califfato si è impadronito anche di Ramadi in Iraq e di Palmira in Siria. In Mesopotamia, tra Tigri ed Eufrate, l’Isis oggi controlla circa 100mila chilometri quadrati e otto milioni di abitanti: secondo altre stime è in arretramento e si sarebbe ristretto di quasi un terzo nel Nord della Siria mentre gli abitanti non superano di molto i sei milioni.

È stata davvero una sorpresa il Califfato? Anche su questo punto si possono sollevare seri dubbi. Nonostante sia infarcita di combattenti stranieri, l’Isis è guidata da ex prigionieri nelle carceri americane e irachene, con l’appoggio di numerosi leader e ufficiali del partito Baath e molti militanti provengono da gruppi islamici noti in tutto il mondo arabo.

Oltre agli aspetti securitari e militari c’è un problema culturale e religioso: la decapitazione di Khaled Asaad a Palmira ne è un esempio evidente. Il jihadismo è l’espressione armata di una versione dell’Islam che interpreta alla lettera il Corano. Migliaia di imam, finanziati da monarchie del Golfo o sostenuti da organizzazione islamiche private, predicano odio e intolleranza contro musulmani moderati e infedeli. Stati Uniti e Occidente hanno molte colpe nel disordine mediorientale: possono intanto smettere di essere complici silenziosi dei loro mandanti.

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